La grande e ancor troppo misconosciuta nuova prospettiva dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite è quella, sostanzialmente, del buon senso: c’è la spinta, attraverso i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (noti come sustainable development goals, o SDGs) approvati dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel settembre del 2015, verso la costruzione di un nuovo orizzonte globale di pace e diritti umani, sconfiggendo, una volte per tutte, la povertà assoluta. L’Italia non è restata a guardare e, grazie ad una direttiva dello scorso marzo, ha istituito una Commissione Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile, guidata dal Presidente del Consiglio, che ha il compito di attuare l’Agenda ONU e la Strategia Nazionale Italiana per lo sviluppo sostenibile. Perché l’Italia possa partecipare efficacemente al processo che, a differenza dei precedenti Obiettivi del Millennio (2000-2015), interessa stavolta tutti i paesi del pianeta e non solo quelli in via di sviluppo, è evidente che sarà necessario un enorme sforzo di coordinamento interno e di orientamento delle politiche nazionali in armonia con i principi espressi negli obiettivi dell’ONU. C’è, tuttavia, un secondo aspetto che rende peculiare la sfida dell’Agenda e che deve informare l’azione dei governi, in particolare quello Italiano. Una delle grandi novità dei SDGs è che per la prima volta la dimensione della disabilità viene espressamente fatta propria dalla strategia ONU in materia di sviluppo sostenibile: si passa, in altre parole, all’esplicito riconoscimento che l’obiettivo di una società sostenibile – perché inclusiva – non può essere raggiunto se non si prende in considerazione il ruolo delle persone con disabilità che, secondo il rapporto mondiale dell’OMS sulla disabilità del 2011, sono circa un miliardo. È un elemento di valore aggiunto che parte dalla constatazione che povertà e disabilità sono fenomeni che si rafforzano mutualmente e che la frequente condizione di multidiscriminazione cui sono soggette le persone con disabilità nel mondo (la dimensione disabilità interseca quella del genere, dell’occupazione, degli ostacoli ad una effettiva partecipazione alla vita sociale e politica, solo per fare qualche esempio) può impedire il successo dell’ambizioso programma delle Nazioni Unite. La “dimenticanza” della disabilità da parte dell’ONU nelle precedenti azioni globali a favore dello sviluppo sostenibile era, di fatto, stata già sanata grazie all’adozione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD, 2006), che l’Italia ha ratificato nel 2009. La Convenzione, infatti, sancisce in modo inequivocabile il diritto per le persone con disabilità ad una effettiva inclusione nella società e al pieno godimento dei propri diritti umani, al pari di tutti gli altri cittadini. Tuttavia, i SDGs includono espressamente, in almeno 5 di essi (istruzione, occupazione, lotta contro la discriminazione, trasporti e spazi urbani, adeguata collazione di dati statistici), la disabilità come fattore di successo per il percorso verso uno sviluppo sostenibile. Si riprende, insomma, il concetto espresso qualche anno fa da Zygmunt Bauman, secondo cui la robustezza di una società, al pari di quella di un ponte, si misura dalla forza dell’anello più debole (meglio, fragile) delle catene che lo sorreggono: la sfida, comune ai SDGs e alla Convenzione del 2006, è quella di rendere le donne e gli uomini con disabilità attori a tutto tondo (sociali, politici, economici) delle comunità. È una sfida che interessa anche l’Italia: non solo per i passi avanti che, al pari di tutti i Paesi sviluppati, deve compiere sulla promozione dei diritti delle persone con disabilità, ma anche perché il Comitato di Ginevra che monitora l’attuazione della Convenzione all’interno dei diversi paesi, nel formulare nel 2016 una serie di raccomandazioni sulla implementazione della Convenzione in Italia, ha espressamente legato le due dimensioni delle disabilità e dello sviluppo sostenibile ai fini dell’assolvimento degli obblighi per il nostro Paese. Ciò significa che l’Italia, nell’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile in materia di promozione dei diritti delle donne, della lotta alla discriminazione o per l’accesso a sistemi di trasporto accessibili e sicuri (per citarne alcuni) dovrà tenere in considerazione i corrispondenti articoli della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità. Disabilità e sostenibilità, insomma, non solo non si escludono, ma devono interrelarsi per il successo delle rispettivi strategie, che sono interdipendenti. Buon senso, insomma, che abbisogna, tuttavia, di visione politica e operatività delle strutture se vogliamo che la nostra sia davvero una società inclusiva e sostenibile, per il 2030 e oltre.
(formiche.net)