Le novità del “Dereto Lavoro” dopo la condanna dell’Italia

Il cosiddetto “Decreto Lavoro” (Decreto Legge 76/13, convertito dalla Legge 99/13) ha introdotto una novità nel diritto antidiscriminatorio a tutela delle persone con disabilità: l’obbligo, cioè, per tutti i datori di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli nell’ambiente di lavoro, per garantire parità di condizioni.
Si tratta di una norma introdotta “in corsa” nella fase di conversione, per colmare il vuoto legislativo lasciato nel 2003 dalla trasposizione della Direttiva Europea 78/2000/CE in materia di parità di condizioni di lavoro[Decreto Legislativo 216/03, N.d.R.]. Un vuoto che è recentemente costato all’Italia la condanna da parte della Corte di Giustizia Europea – Causa C-312/11, Commissione contro Repubblica Italiana (1) -, per non avere recepito «correttamente e completamente» l’articolo 5 della citata Direttiva 2000/78/CE, che aveva disciplinato l’obbligo per i datori di lavoro di adottare «soluzioni ragionevoli» per le persone con disabilità nell’ambiente di lavoro.
Che sia stato un “ravvedimento” tardivo si evince anche dal fatto che la norma rinvia al principio dell’accomodamento ragionevole della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, mentre omette qualunque riferimento esplicito all’articolo della Direttiva cui dà attuazione.
L’aggiunta, quindi, dell’articolo 3 bis al Decreto Legislativo 216/03, introdotta dal Decreto Legge 76/13 (articolo 9, comma 4-ter) ha disposto che «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
Non si può non rilevare il diverso tenore del dettato normativo nazionale rispetto a quello europeo e una prudenza di fondo nell’elaborazione della norma, dettata senz’altro dalla necessità di evitare altre conseguenze per lo Stato italiano, ma che, in mancanza di necessari ulteriori provvedimenti interpretativi – auspicabilmente con Decreto Ministeriale – rischia di rimanere unadempimento formale privo di effettività e che potrebbe invece innescare un contenzioso giurisprudenziale, mirante solo a utilizzare la leva economica che il diritto antidiscriminatorio fornisce, ovvero il risarcimento del danno non patrimoniale, anziché indurre l’adozione di tutele reali a favore delle persone con disabilità.
Un esempio tangibile di quanto questo rischio sia presente è dato dall’altra Sentenza della Corte di Giustizia Europea in materia di soluzioni ragionevoli, laCausa HK Danmark dell’aprile scorso [se ne legga in nota 1, N.d.R.], in cui la trasposizione danese dell’articolo 5 della Direttiva 78/2000/CE, avvenuta con la sua sostanziale traduzione, ha creato un dubbio interpretativo – che i Giudici di Lussemburgo hanno dovuto redimere – circa l’estensione della nozione di cui si discute, non solo sui profili di accessibilità fisica dei luoghi di lavoro, ma, più in generale, di compatibilità dell’ambiente di lavoro – ivi compresa l’organizzazione e l’orario di lavoro – con il funzionamento della persona.
È chiaro, quindi, che la normativa italiana richiederà direttive interpretative di tipo pratico-applicativo e, come si dirà a breve, anche la governance della sua attuazione e dei modelli necessari a rendere operativa la norma.
Come si è anticipato, il tenore letterale della disposizione è diverso dall’articolo 5 della Direttiva Europea e l’obbligo per i datori di lavoro pubblici di non potervi adempiere con aumenti di spesa sembrerebbe sminuirne la portata. Ma il richiamo ivi contenuto alla Convenzione ONU impone l’adozione di criteri ermeneutici in via di definizione da parte della giurisprudenza, soprattutto sovranazionale. È proprio il richiamo alla Convenzione ONU, infatti, la chiave di voltadella sentenza di condanna dell’Italia e del Caso HK Danmark, di poco precedente, sempre in materia di soluzioni ragionevoli. Ed è alla luce di questa giurisprudenza e di quella che – eventualmente – seguirà, che occorrerà interpretare il novello articolo 3 bis del Decerto Legislativo 216/03.
Va detto in sostanza che le Sentenze italiana e danese si differenziano dal precedente della Corte di Giustizia in materia di discriminazioni per disabilità (2) perché, come dicono chiaramente i Giudici di Lussemburgo, il quadro normativo europeo è mutato per l’approvazione da parte dell’Unione Europea della Convenzione ONU (3), divenuta così fonte normativa che prevale sugli Atti Europei (4) e sulle norme di diritto derivato, imponendone un’interpretazione, per quanto possibile, conforme (5). Ne deriva che il diritto al lavoro delle persone con disabilità, sia a livello europeo che nazionale, deve essere uniformato ai principi contenuti nella Convenzione, tra i quali appare opportuno evidenziare la nozione di persona con disabilità (6) e la definizione di adattamento ragionevole.L’adattamento ragionevole, pertanto, è il principio che ritroviamo nella Convenzione ONU e che va considerato come criterio ermeneutico per l’interpretazione dell’articolo 5 della Direttiva 78/2000/CE (7) e deriva da qui, probabilmente, la scelta compiuta col “Decreto Lavoro” di farvi diretto riferimento in luogo di un richiamo alla norma della Direttiva Europea, implicito nel testo legislativo per la sua attuazione a livello nazionale.
L’articolo 5 della Direttiva 78/2000/CE dispone che «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
Come si è anticipato, l’Italia – nella stesura del Decreto Legislativo 216/03, con cui si era data attuazione alla Direttiva 78/2000/CE – non aveva trasposto l’articolo 5 e per questo motivo è stata intentata la procedura di infrazione che ha portato alla condanna.
Nel procedimento giudiziario, la difesa italiana (punto 55 della motivazione della Sentenza) ha sostenuto la tesi secondo cui l’applicazione dell’articolo 5 della Direttivanon può basarsi su un’unica modalità, fondata sugli obblighi imposti ai datori di lavoro. In sostanza, la posizione dello Stato italiano è che l’attuazione della norma può avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema di promozione dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità, essenzialmente fondato su un insieme di incentivi, agevolazioni, misure e iniziative a carico delle autorità pubbliche e, in parte, su obblighi imposti ai datori di lavoro. Un sistema che nel nostro Paese sarebbe il risultato della normativa in materia di collocamento mirato, di Cooperative Sociali, della Legge Quadro per l’Assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità e, sul versante delle mansioni specifiche del lavoratore, sulla normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
Questa interpretazione non è stata condivisa dalla Corte di Giustizia Europea, secondo cui, al contrario, l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE (letto alla luce dei Considerando 20 e 21 della Direttiva stessa), introduce un sistema di obblighi a carico dei datori di lavoro, chenon possono essere sostituiti da incentivi e aiuti forniti dalle autorità pubbliche.
Si tratta di una lettura coerente al paradigma antidiscriminatorio contenuto tanto nella Direttiva quanto nella Convenzione ONU, che impone cioè limitazioni alla libertà economica degli imprenditori – entro certi limiti – nel momento in cui si tratta di tutelare diritti umani fondamentali (8).
Alla luce di queste considerazioni, i Giudici di Lussemburgo ritengono che, contrariamente agli argomenti della Repubblica Italiana, per trasporre correttamente e completamente l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE (9),  non sia sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, ma sia compito degli Stati imporre a tutti i datori di lavoro a livello nazionale l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione (10).
La Corte definisce, quindi, l’ambito di applicazione soggettiva e oggettiva del principio del ragionevole adattamento che, al di là di quanto normative promozionali dell’occupazione possano prevedere – come nel caso italiano la Legge 68/99 [“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.], si estende a tutti i datori di lavoro, a tutte le persone con disabilitànell’accezione fatta propria dalla Corte e ai diversi profili dell’occupazione, comprendendo anche l’accesso, la formazione e la progressione di carriera.
Oltre poi al profilo di qualificazione della fattispecie, vi è un altro fondamentale effetto del richiamo della Convenzione ONU, ovvero la diretta qualificazione del rifiuto del ragionevole adattamento quale fattispecie discriminatoria, che si potrebbe cominciare a considerare come forma di discriminazione specifica.
Sul punto vale la pena evidenziare che nella proposta di Direttiva del Consiglio recante l’applicazione del principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (11) (relativamente a tutti gli àmbiti di vita, quindi), – redatta dopo l’entrata in vigore della Convenzione ONU- il rifiuto di adottare soluzioni ragionevoli èespressamente qualificato come discriminazione, analogamente a quanto avvenuto con la Direttiva 78 del 2000, con riferimento alla nozione di molestie.
Ricadute dell’adattamento ragionevole sul diritto nazionale: profili giuridiciL’obbligo di porre in essere un adattamento ragionevole del posto di lavoro avrà ricadute non indifferenti nel nostro ordinamento su profili e aspetti diversi e una prima implicazione investe il funzionamento del collocamento mirato e la gestione del rapporto di lavoro.Il profilo della ragionevolezza dell’adattamento richiesto al datore di lavoro presenta, infatti, due ordini di problemi. Il primo riguarda la sua concreta definizione e la necessità, quindi, di individuare parametri di riferimento che possano guidare l’interprete e l’operatore nella sua definizione.
La Direttiva Europea fornisce alcune indicazioni, nel disporre che misure statali a favore dei disabili, laddove compensino in modo sufficiente l’onere sostenuto dal datore di lavoro, lo rendono ragionevole. Al tempo stesso il Considerando 21 della Direttiva stessa indica quali siano i possibili parametri da adottare, i costi finanziari o di altro tipo che i datori di lavoro devono sostenere, le dimensioni e le risorse finanziarie dell’organizzazione aziendale, la possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.In realtà, se si osserva il panorama europeo e internazionale, diversi sono gli indicatori. Senza poter dar qui conto in modo esaustivo della normativa internazionale, vale la pena segnalare che tra i profili che possono incidere sulla valutazione di ragionevolezza di un adattamento vi può essere l’effetto vantaggioso che il datore di lavoro trae a seguito delle modifiche apportate, ad esempio per quanto concerne altri lavoratori, fornitori o clienti. Più in generale, può essere valutato l’impatto che questi adattamenti hanno nel favorire l’applicazione di altre normative (si pensi all’obbligo di rendere accessibili i luoghi pubblici). IlDisability Discrimination Act del Regno Unito, ad esempio, fornisce diverse specificazioni su quali misure siano necessarie ai fini di un ragionevole adattamento, che comprende anche mutamenti a livello di assegnazione di mansioni, procedure e trasferimenti, che concorrono al “test” di valutazione della ragionevolezza dell’adattamento (12).
Gli elementi indicati dalla normativa inglese ineriscono diversi aspetti del rapporto di lavoro: disciplina del trasferimento e del mutamento di mansioni; possibilità di suddividere e assegnare in modo diverso mansioni di altri lavoratori; mutamento delle procedure aziendali, anche inerenti la comunicazione, ecc. E ancora, osservando ad esempio l’Australia, qui, tra i criteri da considerare, vi è l’obbligatorietà dei mutamenti richiesti anche in ragione di altre normative applicabili in azienda, la valutazione dei benefici che – più in generale – l’azienda trae dai mutamenti operati, come ad esempio il miglioramento del clima aziendale, dei processi organizzativi, dell’ambiente di lavoro per gli altri lavoratori, clienti o fornitori ecc.
Nel nostro ordinamento, la trasposizione di questi princìpi non appare facile in virtù della giurisprudenza che, in materia di adattamenti dell’ambiente di lavoro con riferimento alle persone con disabilità, basandosi sul “dogma” dell’intangibilità dell’organizzazione aziendale, ha sempre mantenuto un approccio poco incisivo sugli obblighi gravanti sul datore di lavoro. Ne deriva che la natura degli obblighi datoriali è stata ricondotta alla categoria civilistica della cooperazione all’adempimento, la cui estensione è stata rimessa ai princìpi di buona fede e correttezza, con il risultato che le modificazioni richieste al datore di lavoro fossero limitate al singolo posto di lavoro e all’eventuale disponibilità di altre possibilità occupazionali in azienda, ma non hanno mai investito il complesso dell’organizzazione aziendale.
Il principio del ragionevole adattamento rafforza anche la previsione contenuta nell’articolo 10, comma 3, della Legge 68/99 in materia di aggravamento delle condizioni di salute della persona con disabilità obbligatoriamente assunta, secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad attuare i «possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro», ma che la giurisprudenza tende ad interpretare restrittivamente, con l’esclusione di qualsiasi modifica sostanziale dell’organizzazione aziendale (13).
Il paradigma antidiscriminatorio imporrà, in sostanza, un abbandono dei canoni civilistici, con un ampliamento delle obbligazioni gravanti sul datore di lavoro – che dovrà superare il cosiddetto “test di ragionevolezza” del proprio comportamento – e con ricadute in termini di onere della prova. Spetterà al datore di lavoro, infatti,provare l’impossibilità del ragionevole adattamento.
Proprio in ragione di ciò, è necessario individuare organismi super partes competenti, procedure definite e modelli di intervento che possano agevolare le parti nell’adempimento agli obblighi di legge, fungendo da “imbuto deflattivo” di eventuale contenzioso e agevolando, in ultima istanza, il Giudice nel proprio processo decisionale in caso di vertenza.
Si aprono così nuovi scenari interpretativi che interessano il collocamento mirato (14), con specifico riguardo al caso di diniego da parte del datore di lavoro della persona avviata dagli uffici competenti con richiesta numerica (ma non solo). Il paradigma antidiscriminatorio e l’obbligo per il datore di lavoro di adottare – ferma restando la loro ragionevolezza – soluzioni adeguate per la persona con disabilità imporranno una valutazione di tutti gli elementi che rendono impossibile l’effettuazione della prestazione da parte della persona con disabilità prima di poter determinare il rifiuto di avviamento (15).
In realtà, la nozione di collocamento mirato espresso dall’articolo 2 della Legge 68/99 conterrebbe già in nuce tali princìpi, ma la tutela antidiscriminatoria rafforza questa previsione, anche sul versante dei profili probatori richiesti al datore di lavoro, su cui grava la dimostrazione della non ragionevolezza dell’adattamento.
Va inoltre considerato che il paradigma antidiscriminatorio rafforza la valenza protettiva a favore della persona con disabilità, non solo ai fini dello svolgimento della prestazione lavorativa, ma anche per ciò che concerne la “fruibilità” degli ambienti di lavoro in libertà (appunto senza limitazioni funzionali derivanti dall’interazione persona-ambiente).
La normativa nazionale antidiscriminatoria per le persona con disabilità (16), a differenza di altri fattori di discriminazione, qualifica come molestie la lesione non solo della dignità della persona, ma anche la sua libertà, cosicché il mancato ragionevole adattamento può assumere la qualificazione di molestia (17), con conseguente risarcimento del danno non patrimoniale a favore della persona con disabilità.
Sul punto appare interessante segnalare il caso di una recente Ordinanza del Tribunale di Avezzano (18) che pur non facendo leva sulla normativa antidiscriminatoria (19), ha liquidato il risarcimento del danno non patrimoniale a favore della persona con disabilità per la lesione della dignità causata dalla limitazione di movimento nell’ambiente di lavoro, benché non fossero presenti barriere architettoniche nel senso corrente del termine (20). La limitazione della libertà di movimento è stata considerata, in sé frustrante e, quindi, lesiva della dignità della persona.
Ricadute dell’adattamento ragionevole sul diritto nazionale: profili di governance
Un problema di particolare rilevanza nell’applicazione del principio del ragionevole adattamento riguarda la sua governance, ovvero la definizione degli organismi deputati a svolgere un ruolo istituzionale nella sua definizione e nelle fasi di accertamento, nonché le procedure e le modalità operative con cui consentirne l’operato.
Occorre infatti considerare che nell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità e nel mantenimento dell’occupazione, diversi sono gli organismi che svolgono ruoli specifici, intersecando le proprie competenze: uffici competenti dei servizi per l’impiego (quando ci muoviamo nell’ambito della Legge 68/99); commissioni mediche integrate per l’accertamento delle residue capacità lavorative e per la sopravvenuta impossibilità a svolgere le mansioni richieste; servizi socio-sanitari; cooperative sociali e associazioni; medico competente.Ebbene, il rischio del mancato “governo” di questi profili e la mancata individuazione di strumenti e modalità di intervento sarebbe, in modo inevitabile, un elevato contenzioso giudiziario, essendo il Tribunale l’unica istanza, per ora, deputata a risolvere eventuali controversie.
Un dato normativo da cui partire nella pratica attuazione dell’articolo 3 bis aggiunto al Decreto Legislativo 216/03può essere senz’altro il progetto personalizzato (opiano individualizzato) di competenza dei Comuni, previsto dalla Legge 328/00 [“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, N.d.R.] in materia di realizzazione di un sistema integrato di servizi sociali (articolo 14) (21). È questo l’atto giuridico che consente di realizzare la presa in carico integrata della persona con disabilità, adottando una metodologia “a rete”, in base alla quale vengono individuati soggetti erogatori di prestazioni e misure, che agiscono in interazione fra loro.In una recente Sentenza (22) è stato affermato che il progetto globale di presa in carico costituisce il documento generale cui devono uniformarsi i diversi progetti e programmi specifici previsti dal nostro ordinamento, tra i quali il progetto di inserimento lavorativo mirato di cui all’articolo 2 della Legge 68/99 (23). Potrebbe essere quindi quest’ultimo l’atto in cui formalizzare le competenze e i ruoli degli organismi e dei soggetti che devono intervenire nel procedimento di inclusione lavorativa della persona con disabilità, nonché le misure e le azioni che si devono porre in essere. In tal modo si darebbe evidenza degli oneri gravanti sul datore di lavoro e delle misure e dei finanziamenti da lui attingibili, consentendo così di avere dei parametri per la misurazione della ragionevolezza dell’adattamento richiesto. Si tratterebbe, poi, di individuare con precisione gli organismi deputati ad assumere un ruolo super partesper la qualificazione della ragionevolezza dell’adattamento, la cui valutazione potrebbe essere utilizzata dal Giudice in caso di controversia.
E del resto l’adozione di un progetto personalizzato di inserimento lavorativo – quale strumento volto a descrivere e a pianificare l’insieme di interventi finalizzati all’inserimento della persona con disabilità al lavoro – comincia ad essere utilizzato in alcune realtà territoriali, a seguito degli interventi di assistenza tecnica posti in essere dall’Area Inclusione Sociale diItalia Lavoro, per la riqualificazione dei Servizi per il collocamento mirato.Il progetto personalizzato viene redatto sulla base delle informazioni contenute in specifici strumenti di rilevazione delle informazioni, denominati Fascicolo lavoratore e Fascicolo azienda, finalizzati alla costituzione del Fascicolo unico della persona.
La novità di questi strumenti, rispetto a quelli attualmente in uso presso i servizi per il lavoro, è l’impiego del concetto di funzionamento – espresso dall’OMS, attraverso la Classificazione ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] – per la raccolta e la relativa elaborazione dei dati inerenti la persona e l’ambiente specifico. Nell’àmbito del progetto personalizzato, una sezione è dedicata all’individuazione di organismi e soggetti deputati ad apprestare misure, strumenti o a porre in essere azioni finalizzate all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, per la definizione dei costi, dei tempi e delle responsabilità di ognuno.
Recepito nell’ambito delle convenzioni, ai sensi dell’articolo 11 della Legge 68/99, il progetto personalizzato consente quindi di realizzare appieno il principio cardine del collocamento mirato, inserendo la “persona giusta al posto giusto”, mediante l’apporto di servizi per il lavoro, sociali, scolastici e formativi presenti sul territorio.
Area Inclusione Sociale di Italia Lavoro (della quale Mario Conclave è responsabile).
Note:
(1) Questa sentenza segue, a poche settimane di distanza, un’altra pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sull’interpretazione dell’articolo 5 della Direttiva, relativa a un caso danese (Cause riuniteC-335/11 e 337/11, HK Danmark) [se ne legga già ampiamente anche nel nostro giornale, N.d.R.].
(2) Caso Chacón Navas/Eurest Colectividades SA del 2006 (Causa C-13/05).
(3) L’Unione Europea ha ratificato la Convenzione ONU il 23 dicembre 2010, rendendo il Trattato vincolante per le Istituzioni Comunitarie.
(4) Si veda Sentenza del 21 dicembre 2011, Causa C-366/10, Air Transport Association of America e altri.
(5) Si veda Sentenza del 22 novembre 2012, Cause Riunite C-320/11, C-330/11, C-382/11 e C-383/11, Digitalnet e altri.
(6) L’articolo 1 della Convenzione ONU definisce come persone con disabilità «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
(7) Nella Convenzione ONU, per adattamento ragionevole, si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali. Nei rispettivi testi in lingua inglese della Direttiva 78/2000/CE e della Convenzione ONU, il termine adottato è il medesimo, «reasonable accomodation», a differenza che nei testi italiani, dove sono stati adottati due termini diversi: «soluzioni ragionevoli» e «accomodamento ragionevole».
(8) Questo è infatti il rango che la tutela delle persone con disabilità ha assunto con la Convenzione ONU.
(9) Anche alla luce dei Considerando 20 e 21 della Direttiva stessa.
(10) Ciò non toglie, ad avviso di chi scrive, che non si può limitare l’attuazione della norma in Italia con la previsione di un obbligo generico in capo al datore di lavoro (vedi oltre la presente trattazione), a meno che non si voglia correre il rischio di renderla ineffettiva o causa solo di contenzioso giudiziario.
(11) Sec (2008)2180.
(12) Sull’argomento si veda: The Concept of Reasonable Accomodation in Selected national disability Legislation. Background conference document prepared by the Department of Economic and Social Affairs, ONU; e anche A. Lawson, Reasonable Accomodation and Accessibility Obligations: Towards a More Unified European Approach?, in «European Antidiscrimination Law Review», 2010, 11, pp. 11 ss.
(13) Tribunale di Ferrara, Sezione Lavoro., 22 ottobre 2008, n. 219, in «Rivista Italiana di Diritto del Lavoro», 2009, II, pp. 652 ss., con nota di C. Tomiola, L’obbligo di cooperazione del datore di lavoro in caso di aggravamento dello stato di salute del lavoratore disabile, ivi, pp. 656 ss.
(14) Anche se, vale la pena ricordarlo, l’àmbito di applicazione del principio del ragionevole adattamento è più ampio di quello della Legge 68/99.
(15) Fermo restando quanto indicato dal Considerando 17 della Direttiva 78/2000/CE, secondo cui la Direttiva stessa non prescrive l’assunzione, la promozione o il mantenimento dell’occupazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, laddove siano state poste in essere soluzioni ragionevoli. Nederiva che l’eventuale diniego di assunzione di persone con disabilità per impossibilità di svolgere le prestazioni richieste (o anche il licenziamento a seguito di sopravvenuta inidoneità) non deve dipendere dalla necessità di adottare soluzioni ragionevoli, ma dev’essere la conseguenza della perdurante impossibilità di effettuare la prestazione una volta poste in essere (o quanto meno verificate) le possibili soluzioni ragionevoli. Si tratta di un principio comunque insito nella normativa sul collocamento mirato.
(16) Articolo 2, comma 4 della Legge 67/06: «Sono, altresì, considerati come discriminazioni le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti». Ad avviso di chi scrive dignità e libertà possono essere considerati disgiuntamente e non è necessario, per la qualificazione del comportamento come molesto, che si concretizzino entrambi. Umiliare una persona in ragione della sua disabilità (o adottare termini sulla disabilità a scopo offensivo) è lesione della dignità anche laddove non si profili limitazione della libertà. Viceversa una limitazione della libertà, per una persona con disabilità, è sempre una lesione della dignità. Sui problemi legati a possibili interpretazioni restrittive derivanti dalle espressioni definitorie adottate dal legislatore, si veda L. Lazzeroni, Eguaglianza, lavoro, regole di parificazione. Linguaggi e percorsi normativi, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 193 ss.
(17) Si potrebbe paventare il rischio della duplicazione di fattispecie atte a tutelare il medesimo diritto. In realtà, ad avviso di chi scrive, la presenza di diverse forme di discriminazione consente di offrire uno spettro di tutela ampio, permettendo  così di azionare le diverse tecniche di tutela previste dall’ordinamento.
(18) Tribunale di Avezzano (l’Aquila), Ordinanza del 26 marzo 2013 [se ne legga già ampiamente nel nostro giornale, N.d.R.].
(19) In tal senso l’Ordinanza del Tribunale di Avezzano mostra la poca dimestichezza nel nostro ordinamento dell’uso delle categorie discriminatorie. Il risarcimento del danno, infatti, è stato liquidato in ragione della violazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro e non per motivi discriminatori.
(20) Il problema riguardava l’accesso al bagno che, di per sé, era accessibile alle persone con disabilità, ma la presenza di ostacoli ingombranti lungo il percorso ne rendeva disagevole la fruizione.
(21) Sulle potenzialità del progetto personalizzato di inserimento lavorativo, si vedano: M.C. Cimaglia, La riforma del diritto al lavoro dei disabili, in M. Magnani, A. Pandolfo, P. A. Varesi (a cura di), Previdenza, mercato del lavoro, competitività, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 296 ss. e pp. 301 ss.
(22) Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) di Catanzaro, Sentenza n. 440, del 12 aprile 2013 [se nelegga già ampiamente nel nostro giornale, N.d.R.].
(23) In realtà l’articolo 2 della Legge 68/99 non menziona il progetto personalizzato, ma è stato introdotto con la riforma del 2007 agli articoli 12 e 12 bis.
(superando.it)

di Giovanni Cupidi

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