In Italia ci sono 3,1 milioni di persone con disabilità e se vogliono vestirsi alla moda devono districarsi tra zip, bottoni, etichette abrasive, scarpe coi lacci, negozi mal progettati e mancanza di formazione del personale.
Abbiamo i vestiti per i pets ma non per le persone con disabilità che, chissà perché, sembrano non godere del diritto a una vita estetica. In Italia sono 3,1 milioni e se vogliono vestirsi alla moda devono districarsi tra zip, bottoni, etichette abrasive, scarpe coi lacci, negozi mal progettati, mancanza di formazione del personale e di prodotti e vestiti adatti. In alternativa, possono rivolgersi ai marchi di abbigliamento adattabili, la cosiddetta adaptive fashion. na nicchia emergente e in forte crescita, assai utile sebbene un po’ ghettizzante.
L’obiettivo dell’adaptive fashion è l’inclusione sociale dei diversamente abili, anche se alcuni studi sottolineano come sia importante non tanto includere, quanto integrare. Una volta i giovani fuggivano la società come la peste, adesso vogliono entrarci a tutti i costi. Aria dei tempi. Scegliere Elle Goldstein, modella affetta da sindrome di Down e rappresentata da Zebedee Management – agenzia “creata per aumentare la rappresentazione delle persone escluse dai media” – come testimonial della campagna pubblicitaria di un mascara è qualcosa, bravo Gucci!, ma non è sufficiente, bisogna offrire soluzioni di design.
I marchi “adaptive” hanno nomi come IZ Adaptive, Abilitee, So Yes, Tommy Adaptive, ma il merito dei loro creatori è di aprire la via, progettando una moda sia funzionale che esteticamente gradevole. Che cool sarebbe una sacca per stomia, chessò, di Balenciaga.
L’adaptive fashion è come la tana del Bianconiglio, dove ciò che è non è, e ciò che non è, è: clip per cateteri dai colori vivaci e cinture per microinfusori che sembrano cinture (Abilitee), gonne costruite per una struttura seduta, pantaloni con elastico in vita e giacche con cerniere magnetiche, che possono essere indossate con una sola mano (So Yes), jeans boyfriend dal taglio rilassato con chiusure in velcro nascoste, vestiti a portafoglio con chiusure magnetiche e t-shirt senza etichetta con cuciture piatte per un maggiore comfort sensoriale (Tommy Adaptive), frutto della collaborazione tra Tommy Hilfiger e Mindy Scheier, che ha iniziato a disegnare abiti adattivi quando suo figlio Oliver, affetto da una forma di distrofia muscolare, voleva indossare i jeans come i suoi amici, ma non riusciva a chiudere il bottone.
Nel 2012, lo studente Matthew Walzer aveva inviato una lettera a Nike in cui descriveva la sua lotta quotidiana per indossare le scarpe da corsa a causa di una paralisi cerebrale. Toby Hatfield, Senior Director of Athlete Innovation, ha lavorato con Walzer per sviluppare un prototipo che funzionasse per lui e, dopo tre anni, ha lanciato la scarpa Nike FlyEase, una sneaker che si può aprire sul retro senza lacci.
Monika Dugar, co-fondatrice di Reset con Usha Dugar Baid, brand progettato per persone con il Parkinson, è autodidatta. Emily Ladau, nata con la Sindrome di Larsen, un disordine muscolare che, tra le altre cose, impedisce agli avambracci di estendersi, nel 2017 ha partecipato come modella a Open Style Lab (OSL) di Parsons School. Ogni estate OSL ospita un programma di ricerca di dieci settimane che riunisce persone con disabilità. mparare, collaborare e creare abiti su misura per pochi clienti con disabilità.
Quando si pensa alla “moda” si fantastica di settimane della couture, copertine glamour, influencer carine e ricchissime, piscine e bollicine. Il problema è che la stessa visione limitata dell’industria modella gran parte dell’educazione alla moda. E questo è un problema e un’opportunità.
(harpersbazaar.com)