Secondo l’osservatorio sui diritti, l’odio in rete si è radicalizzato e indirizzato verso alcune categorie. Come le persone con disabilità. Ecco come lo si sta combattendo
Due ragazze e un ragazzo sedicenni hanno preso a calci, pugni e ricoperto di sputi una compagna di scuola con disabilità mentre un’altra riprendeva l’episodio con il telefonino. All’aggressione si è aggiunta l’odiosa diffusione delle immagini su Facebook e Whatsapp, per sbeffeggiare la vittima e umiliarla di fronte a chi non aveva assistito. In un altro istituto quattro quindicenni hanno creato il gruppo Whatsapp per offendere e denigrare un compagno affetto da disabilità. Il giovane, però, ha raccontato tutto a casa e i genitori si sono rivolti alla polizia, che ha citato il caso nel recente studio L’odio contro le persone disabili.
Un odio più radicato
Nel suo quinto rapporto La mappa dell’intolleranza (marzo-settembre 2020) Vox, osservatorio italiano sui diritti, osserva che “lo hate speech è diminuito in modo notevole rispetto al 2019”. Su Twitter si passa da circa il 70% di cinguettii negativi nelle due rilevazioni del 2019 al 43% della prima del 2020. Tuttavia questo calo non deve fare abbassare la guardia. Perché restano i picchi di odio, che per Vox “indicano una recrudescenza importante e un accanimento, rilevato anche dal numero dei tweet, che parrebbero evidenziare un uso diverso dei social. Un uso quasi più ‘professionale’, dove circoli e gruppi di hater concentrano la produzione e la diffusione di hate speech”.
Si odia, in sintesi, “in modo diverso, più radicato e radicale, anche se quantitativamente il fenomeno è diminuito. Un panorama che preoccupa”, per Voxm perché agire in questo modo “è il fattore di attivazione di forme diverse e più organizzate di estremismo”. In questo scenario, l’osservatorio evidenzia che “la disabilità è ancora additata come minorazione da non accettare. Lo si è visto nel periodo della pandemia, quando gli hater si sono scatenati contro chi aveva più bisogno di cure”.
Riguardo alla distribuzione, la ricerca evidenzia che i tweet di discriminazione contro la disabilità si concentrano maggiormente in Nord Italia, Lazio e Campania.
Anche il pietismo fa male
“Stavamo tenendo una presentazione su Zoom. Ma il codice per accedere è stato pubblicato su una chat Telegram, e una decina di ragazzi hanno deciso di fare ‘devasto’, come lo chiamano loro, bestemmiando e disegnando peni e svastiche”. Comincia così il racconto di Niccolò Cafagna, giornalista monzese dalla penna garbata e ironica, autore del volume Diverso da chi?. Cafagna è affetto dalla distrofia di Duchenne, una patologia genetica che colpisce i muscoli e ne causa il deperimento, che lo inchioda a letto.
Proprio come evidenziato dal rapporto di Vox, si trattava di un’escalation accuratamente pianificata, con lo scopo di far sospendere l’evento. “Dopo dieci minuti di tira e molla e insulti, siamo stati costretti a concludere. Peccato”, racconta. Ma la delusione più cocente si annidava altrove. “La cosa che mi ha fatto più male è stato il pietismo di questi ragazzini, emerso con chiarezza dalle chat di Telegram che siamo riusciti a recuperare dopo la denuncia. ‘Poverino’ scrivevano, ed era il meno. Aggiungevano frasi sgrammaticate e irripetibili sulle donne, inneggiavano al Duce: un campionario ignobile“, commenta Cafagna. E chiosa:“Voglio dirlo chiaramente: quelle conversazioni mi hanno dato ancora più fastidio dell’interruzione in sé, perché si tratta di un atteggiamento che combatto anche nel mio libro”.
Le forme di odio vanno denunciate
Le conseguenze per azioni del genere possono essere gravi. Accesso abusivo a sistema informatico, detenzione e diffusione dei codici di accesso, diffamazione, minaccia sono alcuni dei reati che possono essere contestati. “La pena dipende dalla combinazione, e può arrivare a sei anni”, chiarisce Lucia Muscari, dirigente della Polizia Postale in servizio a Genova. E aggiunge: “Il mezzo ha posto un diaframma tra odiatore e oggetto: spesso non c’è consapevolezza di fare male e quanto. Dal canto nostro, cerchiamo di fare prevenzione visitando associazioni e scuole: perché quando si arriva alla repressione, il fatto è già accaduto. Entrano in gioco l’effetto domino, l’emulazione. E le conseguenze per le vittime sono difficili da cancellare”.
Tutto è utile per denunciare. Basta una telefonata ai numeri della Polizia postale per avere indicazioni chiare su come procedere. “Si possono produrre video, registrazioni audio, screenshot. E voglio ribadire a ragazzi e adulti di non avere paura: noi siamo qui, con la professionalità dei nostri operatori in costante aggiornamento. Abbiamo a disposizione psicologi che aiutano a gestire tutti gli aspetti, anche quelli legati al timore di possibili ritorsioni”, conclude la dirigente.
La storia di un avvocato
Supporto alle vittime di odio offre anche Lehda, associazione che raccoglie 180 organizzazioni che rappresentano le persone con disabilità in tutta la Lombardia e dispone di uno staff legale. E proprio una legale è stata al centro dell’episodio raccontato dall’avvocato Giulia Grazioli: “La donna, presa di mira sui social nel 2016 perché affetta da acondroplasia, ha fatto causa ottenendo una sentenza di condanna che ha retto anche in appello nel gennaio scorso”. Nel processo, Lehda si è costituita parte civile.
“Riceviamo ancora poche segnalazioni di odio rivolto a persone con disabilità – prosegue Grazioli – ma può voler dire che non arriviamo a conoscere i fatti. Per questo, invito le vittime a contattarci: consigliamo senza scopo di lucro, e facciamo sempre un tentativo stragiudiziale, prima di andare in tribunale”.
La normativa c’è ma è datata
“Le leggi – sottolinea Muscari – ci sono, ma chiaramente si devono confrontare con l’evoluzione della società. Oggi c’è una sovrapposizione della vita virtuale con quella reale che non si riscontrava anni fa”. La conferma arriva da Valentina Crestani, ricercatrice dell’Università Statale di Milano, impegnata in un’attività di studio sui testi normativi italiani e tedeschi focalizzata proprio sul tema della disabilità: “Sulla base di quanto osservo, sento di poter affermare che la ‘sensibilizzazione’ è finalmente entrata nel linguaggio comune, anche perché negli ultimi anni c’è stato un focus sull’inclusione. Certo, la legge 104 parla ancora di ‘persone handicappate’, e se ci si deve rifare alla norma bisogna citarla tal quale. Ma le integrazioni più recenti mostrano un uso differente del linguaggio”. Insomma, conclude, “il risultato degli sforzi di questi anni si è visto. Prima era comune tra ragazzi affibbiare epiteti che prendevano di mira le condizioni fisiche e psicologiche. Epiteti, fortunatamente, che oggi sono molto meno usati”. La strada pare quella giusta.
(wired.it)