LA BALLATA DI RITA ( E DI ILFAN )

Qualche giorno fa hanno destato parecchio scalpore e decisamente molto sdegno le parole pronunciate da
Collin Brewer, membro e consigliere del Concilio di Corwall, il quale ha paragonato i bambini con disabilità ai vitelli deformati che vengono uccisi nelle fattorie e ha dichiarato ufficialmente: “Se in una fattoria nasce un vitello con dei problemi, viene eliminato. Semplice.”
Non credo sia necessario dire qualcosa in merito perché di certo le stesse parole usate da questo individuo lo qualificano. Voglio invece, per ancor più forte stigmatizzare quest’atto di incredibile inciviltà, proporvi una ballata fattami conoscere da un caro amico (Marco M.) che ci fa capire come l’Uomo sia capace di gesti d’amore straordinari e, credo, ne riveli la sua vera natura.
La ballata parla della storia di Rita e di Ilfan e scopritere voi stessi, leggendola, di quale atto di amore straordinario racconta.
Le parole in poesia sono del medico/artista/poeta ottantaduenne Giuseppe Fioravante Giannoni.

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di GIUSEPPE FIORAVANTE GIANNONI

LA BALLATA DI RITA ( E DI ILFAN )

Ho conosciuto Rita a Pontanico.
(un’oasi di pace e di bontà);
a Pontanico ho conosciuto Ilfan.

Mirabile coppia dal sapore amico,
coppia capace di rappresentare
come deve essere l’Umanità;
meglio: era una coppia ultrasovrumana,
una coppia strana che, a prima vista,
tu non l’avresti valutata un fico,
mancamentati appieno tutti e due,
ma a ben guardare
regalavano gioia a piene mani;
gioia veniva nel guardarli in viso
e quel sorriso
nella mente ti restava.
Una lunga storia li travagliava,
una storia di affanni, trista e dura
quale madre natura,
che per tanti è matrigna,
con le proprie mani aveva impastata.

Lei: nata non voluta
(e nata non amata)
si era ritrovata, dopo il parto,
sopra di un ripiano (forse era un letto?)
come fosse uno scarto
di macelleria; era sanguinosa
e col cordone lasciato sul petto.
Per caso ad un dottore
sembrò si muovesse a un tratto qualcosa,
con timore la prese fra le mani
ed urlò ; “Ma questa qui ancora è viva”!
Si dettero da fare
dottori ed infermiere
ma la mamma non la volle vedere,
non voleva avere una figlia così,
quell’acervo di tenerume rosa
che non aveva forza di strillare,
solo deboli lamenti alitava
fra i tormenti del vivere.
E lei non morì, a volte
è la vita che trionfa sulla morte.

Sì, era la vita che aveva trionfato
però con quali costi;
quel’incuria aveva determinato
guasti gravi al controllo muscolare;
si muoveva in maniera innaturale,
(gli arti tutti scomposti),
tanto che sua madre le diceva:
“Meglio era se la morte ti prendeva
e ti riportava al tuo Creatore”,
(si sentiva cristiana e ci credeva).
Soltanto le fu benigna la sorte
circa il motore dell’intelligenza
tanto emotiva quanto cognitiva
ed a ciò non si dava importanza.
L’apparenza negava quel valore.

Lei cresceva in una macchia di rovi,
la lotta per la vita mai finiva,
ogni giorno dentro di sé sentiva
sorgere paradossi nuovi:
nel dolore era un fiore di bontà,
il suo bisogno d’amore
diventava ardore di voler bene
e la sue pene volontà di amare;
se lei era nulla il prossimo era tutto,
il corpo inerme ma la mente in volo.
Solo questa contava;
a lei solo bastava
quel suo costrutto di attese terrene.

E si mise a studiare,
(a ginnastica non andava bene),
arrivò pure a prendere il diploma
di maestra d’asilo, il suo sogno
che saziava il bisogno d’esser mamma.
Mai era doma:
trovato il lavoro, andava a cercare
gli scarti umani (e li trovava),
il servizio sociale glieli dava
in affidamento,
(e quel “servizio come era contento!)
Rita uno dopo l’altro li portava
a casa a far stizzire sua mamma,
un dramma-contrappasso.
Di essi si prendeva cura
con grande premura,
sentendo che era uguale di natura.

Nella scuola materna in cui insegnava
capitò una bambina “rom”
in carico del servizio sociale,
(e nessuno amava quella bambina,
stirpe di “Ultimi”, gli amati da Rita).
E Rita,
diventata fogna di sventure,
dal servizio sociale fu pregata
di prestare le cure a un neonato,
fratellino di quella bambina “rom”,
restato spastico e decerebrato
ed era rifiutato dai genitori.
“Tanto”, le fu detto,”lui campa poco,
question di giorni”.

Così Rita fu pervasa dal fuoco
del più folle amore. Suo lo volle
e i “giorni” furono quattordici anni
di cure, di fervori affettuosi,
di sospirosi affanni
e lei si immeò in un lui,
per cui vivevano in simbiosi.
Anni di pannoloni,
di sbava dalla bocca,
di pianti e di sorrisi,
di attacchi di epilessia improvvisi,
di mugolii, rigùrgiti e vòmiti.
Ma una vita d’amore
fatta destino che strabocchi vita
distrappata ai rintocchi della morte.
Vita dannata ch’era paradiso.

Per essere una mamma
non basta l’utero e gli annessi,
è necessario un cuore
come quello di Rita.

di Giovanni Cupidi

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