Come spesso mi piace fare anche questa volta vi invito a leggere l’articolo scritto da Franco Bomprezzi sul blog Invisibili del corriere.it. L’argomento dell’articolo è molto scottante, si tratta della modifica, ormai in ultima fase di revisione e di attuazione, del nuovo ISEE da parte del Governo.
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di Franco Bomprezzi
E’ una guerra oscura, spesso combattuta in trincea, cercando di alzare piccole barricate per evitare danni e perdite gravi: sono anni che si teme l’arrivo di un nuovo strumento di valutazione del reddito delle famiglie, ossia l’Isee, Indicatore della Situazione Economica Equivalente. Ora apprendiamo che le Commissioni parlamentari Finanze e Affari Sociali della Camera hanno espresso parere positivo allo schema di decreto proposto dal Governo, per riordinare questa complessa materia. Un parere pieno di osservazioni, però, che tengono conto dei dubbi espressi dalle associazioni delle persone con disabilità, e anche della mancanza, tuttora, di uno strumento fondamentale di giustizia sociosanitaria come la definizione dei cosiddetti Lea, i livelli essenziali di assistenza, che dovrebbero valere ovunque, dalle Alpi alle isole, da Est a Ovest.
Non sono in grado di entrare nel merito giuridico di un tema così delicato. Provo solo a elencare alcune questioni di fondo che stanno venendo alla superficie e che nel futuro modificheranno profondamente il sistema di erogazione dei servizi sociali e assistenziali in Italia. Il problema non è soltanto l’Isee, che in fin dei conti è uno strumento di equità, che fra mille aggiustamenti sta arrivando a tenere conto del maggior costo che le persone con disabilità e le loro famiglie devono sostenere per vivere alla pari con gli altri cittadini (senza riuscirsi in ogni caso, tanto che si prevede extra reddito il permanere dell’indennità di accompagnamento, a titolo di risarcimento forfetario per tutto ciò che comporta una spesa determinata dal deficit).
E’ giusto che ci sia uno strumento di valutazione di questo tipo, cioè non basato solo sulla discutibile e spesso non veritiera dichiarazione dei redditi. Il fatto è che siamo per fortuna ancora in un Paese che si basa sull’universalismo dei diritti, non legati dunque al censo, ma alla propria condizione di persona. Sarebbe grave ritenere che soltanto le persone in stato di bisogno economico, se non di povertà, possano accedere ai servizi sociosanitari. Questa sarebbe la premessa per avere servizi pubblici di bassa qualità, destinati ai “poveri”, mentre i ricchi potrebbero scegliere servizi privati costosi e di elevata efficienza. In realtà questo fenomeno, sottotraccia, si sta già in parte verificando, a causa della crisi del welfare nazionale. Ma il criterio in base al quale alcune prestazioni di carattere sociale e assistenziale (non strettamente sanitarie, dunque) devono essere garantite a tutti ma con il filtro della partecipazione alla spesa in base al reddito è assolutamente corretto e condivisibile.
Il punto aperto, e assolutamente critico, è come si determinano, una volta definita la composizione dell’Isee (con franchigie e detrazioni comprese) a livello regionale e locale i livelli massimi di reddito per accedere ai servizi senza aggravio di spesa per la persona o per la famiglie. E’ ben diverso se la soglia di reddito equivalente si ferma a 15 mila euro, oppure sale, per ipotesi, a 40 mila euro. Su questo punto la guerra si sposterà nelle tante trincee regionali, con il rischio che si creino, ancora una volta, violente disparità di trattamento a seconda del posto in cui si vive. Il che è profondamente ingiusto.
E poi, sullo sfondo, resta del tutto irrisolto il tema del costo e della intrinseca qualità dei servizi, dall’assistenza domiciliare ai trasporti, dalle rette per le residenze agli ausili. Una spesa sociale rispetto alla quale occorre una ben diversa attenzione, partendo proprio dai diritti essenziali della persona, e non dalla difesa di rendite di posizione, o addirittura di casta burocratica. Il Paese scricchiola di fronte alla necessità assoluta di rimettere mano al sistema delle agevolazioni, dei trattamenti previdenziali, delle certificazioni di gravità, dell’accesso al lavoro. Il mondo della disabilità sembra ora costretto a giocare solo in difesa (spesso addirittura dividendosi al proprio interno), invece di partecipare, con la propria cultura, la propria esperienza, le grandi competenze a disposizione, alla migliore costruzione di un mondo più giusto.
Ma alla fine, la preoccupazione irrisolta riguarda la possibilità di controllare in modo serio, non vessatorio, ma rigoroso, la correttezza delle dichiarazioni di reddito equivalente. La guerra tra poveri e falsi poveri, l’elusione fiscale, la diffusa evasione, sono tutti fattori così gravi ed evidenti da rischiare di vanificare o di rendere poco credibile qualsiasi riforma, compresa la nuova definizione dell’Isee. Guardiamo il dito, e non vediamo la luna.
Intanto la crisi morde le famiglie e ancor di più quelle nelle quali vivono persone con disabilità, più o meno grave. Dal loro punto di osservazione non può che esserci paura, ansia, sfiducia. Il Governo deve tenerne conto. Senza coesione sociale non c’è ripresa che tenga. E fare “spending review” partendo dai più deboli non è esattamente il modo migliore per farsi apprezzare.
(corriere.it)