Paraplegico da 31 anni, oggi ne ha 48 e compie interventi d’avanguardia per asportare tumori mammari. Dal 1996 opera in piedi, grazie all’ausilio inventato per lui da un amico. “Per un sano egoismo, il paziente non pensa alla mia disabilità, ma al suo bisogno di guarire”
“Non penso di essere un fenomeno: credo che tutti, con determinazione, impegno e sacrificio, possano raggiungere i propri obiettivi, a prescindere dallo status fisico”. Parola di Paolo Anibaldi, chirurgo quarantottenne, responsabile del Day surgery all’ospedale “San Camillo de Lellis” di Rieti. Anibaldi aveva appena 17 anni quando la rottura di un angioma midollare gli provocò una paraplegia. Fino al 1996 ha operato “da seduto”, sulla sua carrozzina. Fino al giorno in cui un amico gli offrì l’ausilio che oggi gli consente di operare in piedi. Come racconta in un’intervista pubblicata sul numero 5 di SuperAbile Magazine, la rivista sulla disabilità edita da Inail.
Dottor Anibaldi, cosa ricorda di quel 2 maggio 1983, che cambiò la sua vita?
Ricordo bene alcune cose, male altre. In verità, ho i primi ricordi legati alle domande dei giornalisti. Ma dopo 31 anni per me quel giorno quasi non esiste più, l’ho rimosso. Non guardo al 2 maggio 1983, ma al 2 maggio del 2014, o del 2015.
La scelta di diventare medico è legata alla sua esperienza diretta con la malattia?
No. Da giovane sognavo di pilotare i caccia, in alternativa di essere chirurgo. Esclusa la prima possibilità, è scattata la seconda. Mi sono realizzato grazie alla mia professione, ma non ho mai creduto che essere un chirurgo paraplegico potesse essere una nota di orgoglio. La disabilità non ha in alcun modo inciso sulla mia vita professionale: ho scelto una professione in cui mi confronto ogni giorno con i pazienti, concentrati sul proprio problema e sulla necessità di risolverlo. Poco importa che il chirurgo sia disabile: ciò che conta è solo la guarigione. Ed è giusto così!
Nessuna diffidenza né resistenza, quindi, da parte dei pazienti?
No; alcuni erano sorpresi. Non è comune vedere una persona con disabilità e associarla alla sala operatoria, agli interventi. È evidente che io sia ben visibile; facilmente salta agli occhi un uomo vestito di verde, seduto su una carrozzina. Ma è solo il primo impatto: passati 20 secondi la carrozzina quasi non si vede più, perché il paziente pensa solo alla propria salute. Oggi, poi, c’è una diversa percezione della disabilità rispetto al passato. Merito soprattutto delle stesse persone disabili, che vivono la propria disabilità come una condizione di vita diversa, sicuramente impegnativa ma anche “piena”.
Lei ha operato per alcuni anni su una sedia, ma da tempo ormai opera in piedi. Come è accaduto?
Era il 1996 quando il mio amico Ivano Amici, titolare di un’officina meccanica della zona, vedendomi in ambulatorio sulla carrozzina, mi propose di realizzare per me un ausilio che mi avrebbe permesso di operare in piedi: ha messo insieme alcuni pezzi di acciaio ed è stata realizzata una particolare attrezzatura che appunto mi consente di operare stando in posizione eretta. A volte sento la stanchezza, ma è l’età che si fa sentire, non la posizione!
Della sua esperienza si inizia a parlare, anche grazie agli interventi eseguiti dalla sua équipe e alla gratitudine di tanti suoi pazienti. Cosa rappresenta questo successo per lei?
Sono contento che se ne parli, soprattutto perché questo sta incoraggiando altre persone a seguire la stessa strada. Io sono stato forse il primo chirurgo italiano disabile, ma poi altri come me sono riusciti a realizzarsi: si sono lanciati, decisi a superare la sfida.
Il suo lavoro assorbe tempo ed energia. Eppure lei è anche uno sportivo e sindaco del Comune di Castel Sant’Angelo.
Sì, ho praticato basket in carrozzina e insieme ai miei compagni di avventura; ci siamo divertiti, raggiungendo anche risultati di buon livello. Purtroppo oggi ” A ruota libera” non esiste più. Siamo arrivati in A1 e abbiamo giocato partite in coppe europee, ma il difficile momento economico non ci ha permesso di andare oltre. Anche l’impegno politico sta terminando. È stata un’esperienza importante. Impegnativa, certo, ma mi ha aiutato a ragionare in modo diverso: mi ha fatto conoscere aspetti della “cosa pubblica” che non ero in grado nemmeno di immaginare.
E adesso ha in mente qualche altra impresa da intraprendere?
Ho 48 anni, sono responsabile di una struttura ospedaliera, ho una figlia grande che studia all’estero: credo che sia il momento di tirare una linea e riprendersi il proprio tempo. Ho sempre pensato che si dovesse fare qualcosa in cui credere, della quale essere convinti, con un obiettivo da raggiungere. Credo di esserci riuscito. Magari domattina mi sveglierò con una sfida in mente: per ora, vivo intensamente le mie giornate e mi dedico ai miei pazienti, cercando come sempre di dare il meglio. La disabilità rende certamente la vita più faticosa, ma non deve impedirci di realizzare i nostri sogni”.
(superabile.it)