Ogni uomo è spinto tra le braccia dell’altro da una basilare esigenza di prossimità. Spesso il corpo non ci accompagna in questo desiderio, e l’impossibilità di percepirci uguali agli altri ci getta nello sconforto.
David Laing scriveva:
<<Tutti, anche la più incorporea delle persone, vivono sé stessi come qualcosa di inestricabilmente legato al proprio corpo. In circostanze normali ci si sente vivi, reali e sostanziali nella misura in cui si sente vivo e sostanziale il proprio corpo. La maggior parte di noi sente di aver avuto inizio insieme col proprio corpo e sente che con esso perirà. Questo è un modo di sentirsi che possiamo chiamare corporeo. Ma non è necessariamente l’unico modo.>>
La persona corporea, che possiede il senso di essere fatta di carne, sangue e ossa e di essere biologicamente viva, reale e sostanziale, sa di vivere completamente entro il proprio corpo. Tutte le sensazioni di sentimento si fondano nella coscienza di questo stato corporeo. Attraverso il corpo noi avvertiamo l’esperienza del dolore, ci distanziamo dal mondo, prendiamo parte al commercio con gli uomini o ce ne allontaniamo. Ma il corpo non è un oggetto come gli altri. In esso vige sempre un io. Io, in quanto persona che sente, agisce, patisce, sono corpo. In quest’identità, tra corpo ed esistenza, accade quella dimensione originaria che si chiama vita.
L’essere vivente non è solo il frutto del corpo-oggetto, Korper, che equivale al corpo “cosa” deificato della natura, ma è soprattutto corpo-soggetto, Leib, ovvero corpo vivente e intenzionale, che non può essere ridotto a campo di gioco di quegli eventi biologici fondamentali che ne costituiscono la struttura. La corporeità, in sostanza, non si esaurisce nell’organismo, ma costituisce il nucleo stesso dell’essere.
Vivere in un corpo disabile è una esperienza che mette a dura prova la capacità di comprensione umana. Se isoliamo il corpo dall’esistenza, astraendola dal vissuto quotidiano, non incontriamo più la corporeità che l’esistenza vive, ma l’organismo che la biologia descrive. Il corpo, allora, decontestualizzato, diventa in-comprensibile, e da oggetto di intenzioni si trasforma in oggetto di attenzioni.
Quando il corpo non è più vissuto come soggettività ma ridotto alla dimensione di corpo anatomico, il suo rifiuto diventa simbolo del più grande rifiuto rivolto agli altri e alla società. Il corpo della persona disabile, da corpo vissuto e significante nella sua intenzionalità, rischia di diventare corpo oggetto, alla mercé degli altri. Senza libertà ed autonomia la scissione fra l’Io e il corpo si divarica irrimediabilmente tanto che il corpo si fa oggetto, diviene corpo-cosa, racchiuso entro il proprio limite e, incapace di oscillare tra il corpo-vissuto e il corpo-oggetto, perde ogni capacità vivere.
Nel mondo della disabilità, infatti, le singole esperienze si scompensano, travalicando gli argini abituali tollerati dal conformismo sociale, e tematizzando strutture di significato diverse a quelle consuetudinarie della vita quotidiana. Se una persona viene destituita, tramite un atto del mondo della medicina, del proprio valore individuale per consegnarsi al vasto panorama che classifica la malattia, la sua vita perderà significato, subendo quelle alterazioni modali dell’articolarsi di una comunicazione emozionale ed esistenziale in cui ad essere negato è il normale ed equilibrato metabolismo delle emozioni.
Se l’alterazione corporea della disabilità può condurre alla perdita della comunicazione mediante il corpo vissuto, allora bisogna rinsaldare l’esperienza corporea, intesa come mediatrice relazionale. Questa mediazione corporea costituisce la base di ogni processo di cura, inteso come caring about, ovvero prendersi cura di chi non appartiene al proprio campo esperienziale, al fine di ricostruirne il senso dell’esistenza, senza prescindere da quella sintonizzazione affettiva così importante per la salvaguardia della salute di ogni essere umano, indipendentemente dalla forma.
(In foto reperto del Museo di Nabeul)