Vi propongo di leggere questo bell’articolo pubblicato sulla rubrica la 27ora de il corriere della sera. Il racconto/incontro dell’autrice con Giusy Versace, campionessa paraolimpica di cui ho già parlato sul mio blog, e di come vivono diversamente e da donne la loro diversa disabilità.
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di Anna Gioria
Mi trovo in un’elegante cioccolateria di Milano. Sono molto emozionata sto aspettando la campionessa paraolimpica Giusy Versace. Da quando ho letto il suo libro autobiografico Con la testa e con il cuore si va ovunque, ho avuto il desiderio di incontrarla. È molto tempo che nutro il desiderio di confrontarmi con una persona che abbia fatto un percorso di vita simile, ma nello stesso tempo diverso dal mio. Ecco leggendo il suo libro, fin dalle prime pagine, ho capito che doveva essere lei, una donna che a causa di un incidente stradale molto grave ha perso entrambe le gambe, maha saputo reagire ed è riuscita a rifarsi una vita. La vedo, sta per arrivare, nonostante l’utilizzo delle protesi si muove con molta agilità e naturalezza. Quando capisce che sono io la persona che deve incontrare, mi sfodera un sorriso smagliante. Ne resto catturata. Nel contempo, però si denota subito il suo carattere deciso; l’unica indecisione che ha dimostrato è stata quella di essere molto attirata da una bellissima coppa di gelato o optare per una salutare spremuta. Alla fine ha scelto la seconda, in vista degli imminenti mondiali a cui vorrebbe partecipare, quindi non può trasgredire nell’alimentazione. Per questo suo gesto l’ammiro maggiormente, ha una forza che certamente io non ho.
Leggere il libro Con la testa e con il cuore si va ovunquedi Giusy Versace è stato un importante spunto di riflessione sul confronto delle diverse esperienze di vita.
Giusy vive una condizione di handicap causato da un incidente automobilistico avvenuto quando aveva 28 anni, in seguito a questo ha perso gli arti inferiori; nonostante ciò grazie a molta riabilitazione ed all’utilizzo delle protesi, la protagonista non solo è riuscita a riappropriarsi della propria vita, ma è diventata un’atleta paraolimpica.
La mia disabilità è stata provocata da una nascita asfittica per mancata assistenza perinatale. In seguito a ciò, quando avevo 6 mesi, i migliori luminari della pediatria di allora mi hanno pronosticato una vita priva di alcuna possibilità di linguaggio e di movimento. A distanza di 44 anni posso affermare che tali diagnosi si sono dimostrate del tutto inesatte, ma non è stato frutto di un miracolo. Infatti, grazie ad una vita spesa in ogni tipo di cure riabilitative in varie parti del mondo, sono riuscita a raggiungere un’autonomia tale che mi ha permesso di conseguire 2 lauree, vivere da sola a Milano, lavorare presso il Corriere Della Sera, avere una vita ricca di amicizie e di interessi.
Leggendo il libro, innanzitutto, ho potuto assodare quella che è sempre stata una delle mie più grandi convinzioni: ritengo, infatti, che per una persona che come me fin dalla nascita vive una condizione di disabilità è «più facile» accettarsi rispetto ad una a cui un handicap sopraggiunge in seguito ad una malattia o ad un incidente.
Questo perché nel primo caso la situazione di handicap fa parte di sé fin da subito, mentre nel secondo la vita cambia repentinamente da un momento all’altro: una situazione che porta a fare un continuo confronto tra il prima e il dopo, paragone che reputo tremendo. Tale differenza l’ho constatata soprattutto in due passi del romanzo.Quando la prima volta dopo l’incidente, Giusy decide di recarsi in spiaggia, uno dei passi più forti in cui la protagonista è assalita dai dubbi, dalla vergogna di mettersi in costume con le protesi, scoppia in un pianto dirompente vergognandosi e timorosa degli sguardi altrui. Mentre io non ho mai avuto questo tipo di problema perché io sono io così come sono, non sono mai stata «un’Anna normale», ma sono Anna, punto.
D’altro canto, sempre riferendomi al discorso dell’accettazione, credo che Giusy abbia avuto il grande vantaggio di avere il sostegno morale e psicologicodell’intera sua famiglia, cosa per cui la «invidio» (nel senso buono della parola), in quanto io ho avuto solamente il validissimo supporto insostituibile di mia mamma, mentre gli altri parenti, papà compreso, mi hanno sempre considerata una diversa, qualcosa da nascondere, provando pietà nei miei confronti, sentimento che non tollero nel modo più assoluto.Logicamente questo avveniva in particolare quando io ero piccola e mi ha condizionato molto nel rapporto che ho con loro: infatti anche se adesso gli stessi parenti sono fieri di me e mi apprezzano per quello che sono, io non riesco a provare un affetto sincero nei loro confronti. Per questo mio sentimento ho letto con una punta di invidia le pagine in cui Giusy è circondata dai cugini e dagli zii; in particolare mi sono commossa quando la protagonista descrive il rapporto di solidarietà e di cameratismo con lo zio, tipo di relazioni parentali che alla sottoscritta sono mancate, supplite dall’adolescenza in poi con amicizie molto importanti.
Un’altra fondamentale differenza che ho potuto constatare tra me e e la protagonista del libro è il discorso della fede.Giusy è molto credente, penso che questo suo credo molto forte ce l’avesse già prima dell’incidente, la cosa sorprendente è che non l’abbia perso dopo la tragedia. Nel suo raccontare il suo viaggio a Lourdes ho percepito una serenità e una devozione, anche nei momenti più critici, in cui «persone come noi» si pongono il fatidico quesito «perché proprio a me?».A tale proposito io ho un approccio molto diverso, non credo, o meglio credo a modo mio; nel porre la domanda, ho un atteggiamento molto più violento, arrabbiato. Molto probabilmente ciò dipende dal fatto che ho frequentato le scuole in ambienti religiosi, dove ho ricevuto alcune ingiustizie abbastanza gravi, che hanno segnato la mia fede. Lo so che quest’ultima dovrebbe andare oltre a tutto, ma purtroppo non è così… non ho raggiunto una maturità religiosa tale da poter superare questo limite.
Ciò che più ammiro in Giusy è la sua determinazione e la sua volontà di sottoporsi alla riabilitazione, cosa che a me spesso manca; probabilmente in lei c’è il forte desiderio di tornare ad essere quella di prima, il confronto con il suo passato la incentiva a lottare ed andare avanti.
Da un punto di vista più pratico ci sono tre punti del libro in cui Giusy mi ha fatto rivivere due mie esperienze simili, ma anche diverse dalle sue. L’episodio in cui lei racconta di quando parte in aereo con i propri genitori per raggiungere il centro di riabilitazione vicino a Bologna: è il suo primo viaggio da portatrice di handicap, durante il quale fa il paragone rispetto a quando viaggiava da sola per lavoro ed era lei stessa che si organizzava tutto e correva da un aereo all’altro, invece adesso è costretta ad essere assistita, cosa per lei alquanto difficile da accettare.
Mentre leggevo queste pagine mi sono rammentata del mio primo viaggio che ho fatto da sola in aereo, all’eta di 23 anni per raggiungere degli amici in Puglia per trascorrere da loro le vacanze, e soprattutto mi è ritornata in mente la gioia e la soddisfazione di quel momento in cui per la prima volta mi sono sentita veramente una persona libera e autonoma. UNA VERA CONQUISTA!
Un altro punto molto intenso è l’arrivo di Giusy al centro di riabilitazione di Budrio, in cui per la prima volta si sente in mezzo a persone di disabilità e prova un conseguente disagio; le parole con cui lei descrive questo suo imbarazzo e questa sua inadeguatezza mi hanno fatto rivivere i sentimenti che ho provato io quando sono andata per la prima volta al centro di riabilitazione in Svizzera; dove anche io per la prima volta mi sono trovata in un ambiente in cui erano tutti disabili.
Un’altra situazione in cui mi sono immedesimata è il panico provato percorrendo l’autostrada la prima volta dopo l’incidente: è lo stesso panico che provo io quando mi trovo in ambienti molto piccoli come gli ascensori, perché «rivivo» il momento della mia nascita asfittica e della conseguente mancanza di ossigeno.
di Giovanni Cupidi