Donne, Amore e disabilità

L’amicizia è la più preziosa delle esperienze di relazione. Se è vera, si dice, non finisce. Ma se il diavolo ci mette la coda finisce anche quella. Resta un senso di desolazione e di aridità interiore devastante. Ci si sente pervasi da uno squallore com’é di certi luoghi, di certe case, di certi stati di abbandono e di incuria che restituiscono la dimensione interiore del gelo e dell’incubo. E anche dopo essersi salvati da questa palude resta la tristezza profondissima e un senso vago di nausea. Tra le esperienze di vita, il tradimento di un’amicizia è sempre un buco nero che risucchia energie vitali; subìto da persone con disabilità o da persone colpite da quell’handicap invisibile che è l’accudire familiari con disabilità non si può nemmeno annoverare tra i lutti. E’ semplicemente un non senso impresso come un sigillo maledetto sulla propria vita.

Forse è per questo che non si parla facilmente di sentimenti quando il contesto è quello un po’ misterioso che ruota intorno alla disabilità; forse perché mentre dalla parte dell’offerta (di tenerezza) si teme di operare il politicamente scorretto, dall’altra – quella della domanda- ci si convince che è normale che le storie finiscano male o che non inizino proprio o che non si cerchino affatto, come se fosse un tabù il desiderarle. Se ne parla spesso ormai ma ho la sensazione (ed è un dato tutto personale) che per quanto si circumnavighino terre nuove in tema di affettività, non si riesce mai a sbarcare. Come se ci fosse una paura di fondo, qualcosa che trattiene ogni desiderio, anche di conoscenza. Pudore forse, o senso d’inadeguatezza più che oggettivo disagio. Eppure l’istanza è vasta e profonda sia da parte di chi l’amore – in tutte le sue forme- lo cerca, sia da pare di chi vorrebbe amare senza pregiudizi, anche una persona con disabilità o un caregiver. Basta consultare la barra a destra per vedere che anche qui sul blog gli argomenti più letti sono da sempre quelli che riguardano i sentimenti, la sessualità, il rapporto col proprio corpo e con la propria affettività; in una parola, la fonti di autostima.

Nemmeno le ultime delicatezze di Franco Bomprezzi (un pensiero alle donne nel corso di un bilancio personale di mezz’agosto, mentre più forte si scatenava la furia del femminicidio) hanno potuto rendere un discorso compiuto ed efficace su questo tema che spesso suscita entusiasmi, ma anche critiche; o contrapposizioni, a volte anche di genere (per esempio quando si parla di assistenti sessuali ma solo in relazione ai maschi e non anche alle femmine; o di nuove compagne che gli uomini trovano con più facilità mentre per una donna è più difficile farsi accettare con quel burqa che è la propria condizione di badante a vita, come se sotto non ci fossero nudità, anche dell’animo, che chiedono solo di essere vestite diversamente).

Poi, risolutiva nella sua semplicità, arriva una folata di vento che spazza via tutti questi pensieri, tutte queste congetture. E’ una storia, quella della madre di un figlio autistico – Mariella – che decide una sera che a qualcosa non può proprio rinunciare: ad essere presente al Premio Estense al quale partecipa come finalista Gianluca Nicoletti, noto giornalista e autore di Una notte ho sognato che parlavi – Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico. Mariella diventa così la assoluta protagonista di uno strepitoso corollario al Premio che avrà eco su La Nuova Ferrara, il quotidiano a cui Mariella ha scritto, dichiarando le proprie intenzioni da novella Cenerentola. Proprio Nicoletti, poi, vincerà il prestigioso premio e le risponderà dal suo blog con parole di disarmante bellezza per la cognizione di causa che dimostra di possedere sulla condizione più intima delle donne prigioniere non (e qui vorrei correggere Nicoletti) della disabilità dei figli quanto piuttosto di se stesse e della propria scelta di sacrificio personale a favore del figlio e della famiglia tutta.

Ma, osservo, se le donne hanno chiuso il cancello sulla propria libertà vuol dire che ne posseggono la chiave. Se questo è vero, possono riaprire quel cancello quando vogliono e godere dell’ora d’aria quando ne hanno il desiderio e non solo il bisogno; perché l’autostima a cui accennavo non piove dal cielo, e la cura di sé, anche minima, ne è parte integrante. Per questo il feedback maschile ha un valore incommensurabile nella vita di quelle donne che se non hanno più a cuore la somma delle “lasciate” e delle “perdute”, sanno sapientemente tenere il conto delle piccole conquiste e degli atti di volontaria gratificazione. E che sanno essere riconoscenti a quegli uomini che, lasciandosi cogliere dalla curiosità, provano a decifrare un universo in divenire fatto di nuove consapevolezze.

(corriere.it)

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