La prima volta che hanno creduto all’inferno che raccontava, Miriam aveva 35 anni. Tutte invenzioni – secondo la psicoterapeuta che la seguiva per conto dei servizi sociali – le violenze denunciate da una ragazza affetta da disabilità cognitiva, per giunta con una forma di miopia gravissima dalla nascita. Che nel silenzio di tutti, persino dei vicini di casa, in un piccolo paese del nord Italia, da normalissimi genitori italiani, è stata picchiata, violentata, prostituita, venduta, costretta ad abortire due volte. Quando allo sportello Differenza Donna di Roma hanno ascoltato la sua storia, le volontarie sono rimaste choccate. «Sembrava incredibile che un essere così indifeso avesse potuto sopportare tanta sofferenza senza soccombere» spiega l’anima dell’associazione, Rosalba Taddeini. Eppure Miriam la violenza l’ha sopportata, senza arrendersi, finché qualcuno s’è accorto di lei. E l’ha salvata.
In tre anni di attività Differenza Donna, l’unica associazione a occuparsi specificatamente di queste vittime in Italia, di storie come quella di Miriam ne ha incontrate 132. «È la punta dell’iceberg di un fenomeno che coinvolge, nei Centri antiviolenza sparsi in tutto il Paese, una media di 1.500 donne all’anno» continua Taddeini, che con una forma di disabilità motoria ha a che fare da quando è nata. «Spesso ci chiamano, anche dall’estero, per chiederci come affrontare i colloqui, che tipo di percorso intraprendere. Facciamo formazione, incontri, corsi. La verità è che fino al 2014, quando una prima ricerca dell’Istat ha fatto luce su questo fenomeno, nemmeno i movimenti e le associazioni nati per difendere le donne prendevano in considerazione queste vittime». Discriminate perché disabili, oltre che perché donne. Due volte vittime prima ancora di subire la violenza, che secondo quella ricerca dell’Istat tocca al 72% delle donne con disabilità. E che è violenza sessuale nel doppio dei casi delle donne senza disabilità, perché di chi è più indifesa ci si approfitta: «Un campanello d’allarme che nessuno ha ancora preso davvero in considerazione». Tranne il Comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità, che nell’agosto del 2016 ha richiamato formalmente l’Italia sul punto, raccomandando di predisporre strumenti di monitoraggio per il contrasto della violenza contro le persone con disabilità nonché di produrre un piano di azione per l’attuazione della Convenzione di Istanbul che riguardi specificamente le donne e le minori con disabilità. Un appello rimasto lettera morta, tranne alcune mozioni parlamentari avanzate proprio quest’anno.
A fare il punto della situazione in questi giorni è stata proprio un’indagine condotta dall’associazione Differenza Donna insieme alla Fish (la Federazione italiana per il superamento dell’handicap). A dichiarare d’aver subito violenza sono il 65,3% delle intervistate: la forma più ricorrente è la violenza psicologica subita dal 54% delle donne; segue la molestia sessuale (37%); la violenza fisica (24%) e la violenza economica (7%). L’autore delle violenze nell’80% dei casi è una persona nota alla vittima, con diversi gradi di prossimità: nel 51% dei casi si tratta di una persona affettivamente vicina, ossia il partner, attuale o passato, o un altro familiare; nel 21% si tratta di un conoscente e nell’8% – anche questa beffa – di un operatore, cioè una persona che assiste professionalmente la donna con disabilità. E che se ne dovrebbe prendere cura.
«Anche la maternità spesso entra in gioco nelle storie drammatiche di queste donne» continua Taddeini. È il caso di Flora, mamma di un bimbo di 6 anni. Alla sua disabilità – sia fisica che cognitiva – non aveva fatto caso nessuno finché non ha deciso di denunciare il marito che la picchiava. E che ogni sei mesi la lasciava, per poi ripresentarsi, in alcuni casi dopo anni di assenza. Il suo bambino Flora l’ha praticamente tirato su da sola, finché i servizi allertati dopo la denuncia delle violenze hanno messo lei sul banco degli imputati: «Hanno valutato che non era in grado di tenerlo con sé e li hanno separati. Un’ingiustizia enorme, contro cui stiamo lottando da 4 anni». E contro cui nemmeno Flora si vuole arrendere.
Essere donna con disabilità d’altronde «vuol dire essere sottoposta ad un molteplice rischio di discriminazione – spiega la vicepresidente della Fish, Silvia Cutrera –. Come donna e come madre si condivide con le altre donne la mancanza di pari opportunità che contraddistingue le nostre società; come persona con disabilità si condivide l’esclusione sociale, la discriminazione, la difficoltà di partecipazione. Le donne con disabilità, inoltre, non godono di pari opportunità nemmeno rispetto agli uomini con disabilità». La Fish è impegnata in una battaglia culturale, coinvolgendo la politica, il mondo dei servizi, ma anche quello della sanità: «Troppo spesso le discriminazioni cominciano proprio lì, sul lettino di un ospedale. Che ancora non è attrezzato né per prendersi cura di chi arriva con una sedia a rotelle come me, magari per una banale mammografia – continua Cutrera – , né per raccogliere e prendere sul serio le denunce di violenza fatte da donne con disabilità cognitiva, che fanno fatica a spiegarsi e che troppo spesso non vengono prese sul serio». Un altro dramma ben evidenziato dai numeri dell’indagine: se già è difficile per le donne senza disabilità denunciare il proprio partner, appena 2 su 10 tra quelle disabili trovano questo coraggio. E ancor meno – appena il 5% – arrivano a rivolgersi a un Centro antiviolenza.
(Avvenire.it)