di Pietro Vittorio Barbieri**
Si potrebbe chiudere il ragionamento su Unione Europea e disabilità con un concetto chiaro: le competenze in materia di salute, politiche sociali, occupazione e scuola sono di totale competenza degli Stati membri. L’unica competenza effettiva è però sui diritti umani. Il Testo Fondamentale dell’Unione Europea (TFUE, a partire dalle modifiche di Nizza del 2001 e di Lisbona 2007) infatti delega le istituzioni comunitarie ad essere garanti e della discriminazione che subiscono tutti cittadini dell’unione ivi incluse le persone con disabilità. Da qui nasce il terreno su cui si sviluppano molte attività dell’unione in materia di disabilità. È un pertugio stretto ma interessante. L’UE per la prima volta nella storia è stata nelle condizioni di poter ratificare un trattato sui diritti umani: la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
È chiaro che esistono due binari paralleli: le competenze effettive e i diritti umani che attraversano costantemente i limiti delle competenze sancite dall’accordo di Lisbona. Ci sono paesi dell’unione che hanno frenato l’attraversamento. In particolare occorre ricordare il ruolo della Gran Bretagna: qualunque governo abbia avuto di destra o di sinistra, pro Brexit o anti Brexit, ha ostacolato in tutti modi una maggiore convergenza verso maggiori poteri dell’Unione Europea, divenendo il principale sostenitore della cosiddetta Europa interstatale.
In tutta onestà, su temi specifici, di volta in volta, larga parte dei paesi membri si sono esercitati nella tutela delle proprie prerogative. Al contrario di quanto si pensa, la versione neoliberista dell’unione di marca anglosassone. L’Europa dei mercati è infatti ciò che interessava il core business inglese, ovvero la finanza. Il modello di sviluppo di altri paesi è molto più orientato al manufatturiero e soprattutto ad un modello sociale d’impresa in cui gli stessi lavoratori partecipano agli orientamenti se non anche alla gestione stessa dell’azienda.
Non a caso non a caso la Brexit ha lasciato spazio necessario per immaginare prima, ed approvare poi, il cosiddetto pilastro sociale dell’Unione Europea. Non ci si doveva preoccupare più del vero della Gran Bretagna. Si potrebbe dire che si tratta di una prima traccia di livelli essenziali in materia di politiche sociali valide in tutta l’UE. Tra questi c’è proprio la Convenzione ONU, assieme al reddito minimo, al diritto al contratto nazionale, al salario minimo e da tanto altro. È anche vero che l’altra spinta essenziale è stata l’avvento dei populismi in molti paesi europei.
Al netto dei Recovery Fund, uno degli spazi centrali a livello europeo è proprio occupato dal come tradurre i 17 principi del pilastro sociale in pratiche e obblighi dei paesi membri. Lo scontro ovviamente oggi è tra i paesi membri e la loro paura di cedere potere. Ora ad esempio è in discussione il salario minimo: è complesso stabilire a quale livello minimo si può definire una remunerazione effettivamente rispettosa della prestazione svolta, in ogni Stato membro che ha standard di costo di vita così diversificati. Esistono calcoli matematici difficilmente traducibili in principi. Questa difficoltà non sembra scoraggiare la volontà di arrivare a definire quello che in Italia chiamiamo un livello essenziale.
Questo è il nodo da affrontare anche sulla disabilità, tra spinte che vanno verso la convergenza e quelle che bloccano l’autonomia di ogni Stato, tra definizione di standard sui diritti umani che sconfinano verso quelli civili e sociali oppure enunciazioni di principio che si traducono in indirizzi scarsamente vincolanti. A tutto ciò si aggiunge ciò che l’emergenza Covid ci ha fatto riscoprire: la tendenza in tutta Europa a orientarsi verso la segregazione specie delle persone con disabilità più gravi. Con la motivazione della protezione, portata all’eccesso estremo in questa fase, le persone vengono istituzionalizzate in luoghi chiusi e lontane della società. Per la stessa ragione si interrompono i percorsi virtuosi di inclusione nella scuola e nel lavoro delle persone con disabilità.
Il presidente dello European Disability Forum Ioannis Vardakastanis sostiene che in questa epoca non dobbiamo più combattere per l’inclusione, ma per non essere esclusi. Invita anche a mutuare in chiave europea la campagna americana Black Lives Matter sulle persone con disabilit: anche nostra vita ha un valore. Troppe persone hanno perso la vita per potersene dimenticare. Questo ha messo a nudo il fenomeno della segregazione mai effettivamente abbandonato in larga parte dei Paesi dell’Unione. Come pure la fragilità dei percorsi di inclusione, dato che i primi ad essere espulsi da sistemi scolastici e dei luoghi di lavoro risultano essere proprio le persone con disabilità e le donne con carichi familiari ancor più se con figli o parenti con disabilità.
È un compito complicato oggi porsi nell’ottica di garantire i diritti umani per le persone con disabilit. Ancora più di prima. Va ha detto che alla Commissione Europea non manca il coraggio. Su pressione delle organizzazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari la commissione, sta per mettere in campo una strategia decennale, la seconda. Una sorta di piano d’azione che intende muovere i suoi passi proprio dall’allargamento delle competenze. Oggi infatti siamo in una stagione decisamente nuova per l’Unione Europea, rappresentata anzitutto dai meccanismi del Recovery Fund. Si tratta di debito condiviso da tutti i paesi dell’Unione Europea. Questo passaggio implica un vincolo sempre più stretto tra i paesi dell’Unione, che non condividono più solo una moneta ed un mercato unico, ma anche l’indebitamento per scopi comuni che si sviluppano sull’asse del Green New Deal.
La sostenibilità secondo l’Unione Europea riguarda sia l’ambiente che l’inclusione sociale. Non viene per primo l’uno e poi l’altro, sono contestuali. Il piano di riforme richiesto per ottenere qualunque fondo europeo (PNR), incluse le nuove misure, non è ancorato più solo alla sostenibilità economica, come ad es. il fatidico rapporto deficit Pil, ma anche a quella ambientale e sociale. Contemporaneamente. Non è più la stagione per avere prima i conti in ordine e poi, sempre che avanzino risorse, fare politiche sociali e ambientali. La stessa battaglia sui vincoli del Recovery Fund è emblematica. l rispetto dello Stato di diritto è il principale vincolo per avere accesso al prestito europeo ed alle risorse a fondo perduto. Questo ci riguarda da vicino poiché la misura dello stato di diritto è anche nel come si trattano le minoranze, e tra queste ci sono le persone con disabilità.
C’è quindi un cambio di passo significativo. Lo potremmo misurare sin dalla presentazione della nuova strategia europea per le persone con disabilità che avverrà a marzo. Ma anche sulla sua discussione che si avrà nelle istituzioni europee a partire dal Parlamento. Misureremo quindi se le richieste del Cese (Comitato Economico Sociale Europeo) e delle associazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari troveranno accoglienza. Tra queste si segnala la necessità di avere un focal point specifico sulla disabilità in ogni direzione generale della Commissione. Quindi in ogni ambito in cui si esprime il governo dell’Unione Europea. Fare in modo che le persone con disabilità non perdano la possibilità dell’inclusione attraverso l’eliminazione di tutti gli ostacoli presenti la nostra società. Soprattutto con l’implementazione di tutti i sostegni necessari affinché le persone siano messe condizione di essere protagonisti del proprio destino.
*(articolo redatto in gentile e esclusiva concessione da Pietro Vittorio Barbieri)
**Vice presidente Gruppo 3 Diversity Europe e presidente Gruppo Studi Disabilità Cese (comitato economico e sociale europeo)