Il decalogo che segue è stato scritto quindici anni fa da Franco Bomprezzi, giornalista, comevademecum “della buona informazione” ed è rivolto a chi si occupa di disabilità nell’ambito della comunicazione:
1) Considerare nell’informazione la persona disabile come fine e non come mezzo.
2) Considerare la disabilità come una situazione “normale” che può capitare a tutti nel corso dell’esistenza.
3) Rispettare la “diversità” di ogni persona con disabilità: non esistono regole standard né situazioni identiche.
4) Scrivere (o parlare) di disabilità solo dopo aver verificato le notizie attingendo possibilmente alla fonte più documentata e imparziale.
5) Utilizzare le immagini, nuove o di archivio, solo quando sono indispensabili e comunque corredandole di didascalie corrette e non offensive della dignità della persona. Quando la persona oggetto dell’immagine èchiaramente riconoscibile, chiederne il consenso alla pubblicazione.
6) Ricorrere al parere dei genitori o dei familiari solo quando la persona con disabilità non è dichiaratamente ed evidentemente in grado di argomentare in modo autonomo, con i mezzi (anche tecnologici) a sua disposizione.
7) Avvicinare e consultare regolarmente, nell’ambito del lavoro informativo, le associazioni, le istituzioni e le fonti in grado di fornire notizie certe e documentate sulla disabilità e sulle sue problematiche.
8) Ospitare correttamente e tempestivamente le richieste di precisazione o di chiarimento in merito a notizie e articoli pubblicati o diffusi.
9) Considerare le persone con disabilità anche come possibile soggetto di informazione e non solo come oggetto di comunicazione.
10) Eliminare dal linguaggio giornalistico (e radiotelevisivo) locuzioni stereotipate, luoghi comuni, affermazioni pietistiche, generalizzazioni e banalizzazioni di routine. Concepire titoli che riescano ad essere efficaci e interessanti senza cadere nella volgarità o nell’ignoranza e rispettando il contenuto della notizia.
La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità sarebbe arrivata solo nel 2006 e l’autore ha dichiarato di essersi ispirato, nello stilare questo decalogo, alla Carta di Treviso ovvero il documento prodotto dall’Ordine dei Giornalisti per tutelare e regolamentare l’informazione sui minori.
Detto questo, cosa si nota dal decalogo? A un primo sguardo la sua attualità, innegabile, visto che l’informazione generalista si occupa del tema disabilità o relegandolo alla cosiddetta “tv del dolore” o, saltuariamente, affidando a qualche personalità di spicco del momento il racconto epico di persone disabili con doti straordinarie (come se la disabilità riguardasse solo vittime ed eroi e fosse estranea alla normalità). A una seconda occhiata però, ciò che colpisce è la sua universalità.
Si può prendere come esempio il punto 1), ma funziona anche con gli altri, e rileggere la frase senza la parola “disabile”. Considerare nell’informazione la persona come fine e non come mezzo.Incontestabile, e non è certo un caso. Perché se vicino a “persona” si aggiunge qualche altro aggettivo che di solito, spesso a torto, viene usato per identificare una minoranza il discorso mantiene intatto il suo senso. Ma, soprattutto, il ragionamento funziona anche se si lascia semplicemente il termine “persona” senza specifiche. Questo perché – è così banale che vale la pena ricordarlo- la “persona disabile”, la “persona di colore”, la “persona omosessuale” e via dicendo sono, prima di tutto, “persona” esattamente come chi sta scrivendo o leggendo.Rispettare la “diversità” di ogni persona; considerare le persone anche come possibile soggetto di informazione e non solo come oggetto di comunicazione; eliminare dal linguaggio giornalistico (e radiotelevisivo) locuzioni stereotipate, luoghi comuni, affermazioni pietistiche, generalizzazioni e banalizzazioni di routinenon sono regole a salvaguardia dell’una o dell’altra categoria, ma strumenti di tutela per tutti, compreso chi scrive (o parla, o disegna e via dicendo).6
Chi si occupa di informazione spesso rimane indispettito da decaloghi come questo. C’è chi vede cospirazioni di lobby segrete o un eccesso di politically correct, trascurando così il carico di responsabilità che comporta diffondere un contenuto, specialmente nella rete; c’è una certa presunzione nell’informare senza prima informarsi ma, soprattutto, nel ritenersi estranei all’argomento di cui si tratta.
Esistono, a oggi, pubblicità progresso che usano immagini di persone su sedia a ruote per dissuadere gli autisti imprudenti, petizioni contro la costruzione di ascensori a norma accusati di “deturpare” i monumenti e reazioni di indignazione e sgomento alla proposta di istituire anche in Italia la figura dell’assistente sessuale: si parla di disabilità sempre più spesso, prendiamoci la responsabilità di non parlarne a sproposito.
(duerighe.it)
di Giovanni Cupidi