Alla luce delle recenti sentenze del TAR del Piemonte e del Tribunale di Ascoli Piceno vi sottopongo una analisi, anche ampia, comprendente anche lo strumento del nuovo ISEE, descrivente le novità, i limiti e le perplessità riguardo l’assistenza alle persone con disabilità e sull’assistenza diretta e indiretta. Il tutto sotto la vigente Convenzione ONU sulla disabilità.
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di Eleonora Campus
Per la prima volta in Italia una sentenza del Tribunale Civile di Ascoli Piceno (cfr. qui: Sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013), ha reso effettiva la legge 67/06 – che tutela le persone con disabilità dalle discriminazioni – nel settore sociale. La Corte ha riconosciuto la presenza di una discriminazione ogni volta che alla persona non vengano erogati dei “servizi sociali” “adeguati” e cioè, rispondenti alle sue specifiche esigenze. Nello specifico, si tratta delle prestazioni destinate all’assistenza alla persona.
Il caso è quello di una donna con disabilità grave, alla quale è stato negato dal Comune di Ascoli Piceno – per 8 lunghi anni – il diritto all’assistenza indiretta. La donna ha perciò agito per vie legali contro il Comune, che si è difeso con varie motivazioni. Di conseguenza il Tribunale ha valutato le ragioni di entrambe le parti e partendo dalla Convenzione ONU sulle persone con disabilità (ratificata in Italia con legge 18 del 2009) – facendo particolare riferimento al concetto di “accomodamento ragionevole” (artt. 2 e 5), ha riconosciuto la discriminazione e condannato il Comune a risarcire con 20.000 euro la donna ai sensi della legge nazionale 67/06 (artt. 2 e 3).
Indubbiamente la sentenza è importante perché, guardando oltre al caso particolare, ha messo in luce che la legge italiana antidiscriminazione ha molti ambiti di applicazione. Inoltre, ha aperto la strada a futuri ricorsi sulla base di questo precedente che ci parla di “diritti umani” resi effettivi dalla giustizia laddove il decisore pubblico li calpesta. Ma le sentenze vanno lette in maniera minuziosa, per individuare oltre ai punti di forza anche quelli di debolezza. La non discriminazione è fatta di passi avanti ma occorre essere sempre vigili per evitare che i singoli casi diventino eccezioni o che si torni indietro. Ecco dunque l’analisi – dal mio punto di vista – della decisione del Tribunale.
ANALISI DEI PUNTI DELL’AZIONE LEGALE ACCOLTI DAL TRIBUNALE CIVILE
1.1 Primo argomento del Comune: la negazione dell’assistenza indiretta sulla base della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004.
L’Ente Comunale si è difeso motivando che ha negato l’assistenza – a seguito e sulla base della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004 (cfr. qui) – perché l’avrebbe garantita un familiare, il marito della donna, assistendola lui stesso. La Delibera infatti riconosce l’assistenza “solo se svolta da estranei” vale a dire, da persone non appartenenti al nucleo familiare.
1.1.1 Il Tribunale: l’applicazione cieca della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004
Secondo il Tribunale, la donna “per la particolare condizione legata alla sua disabilità, fortemente limitante”, ha bisogno indiscutibilmente di assistenza domiciliare indiretta. Per la Corte, la Deliberazione di Giunta n. 63 del 19.03.2004 definisce che il contributo economico per assistenza domiciliare indiretta, offerto dal Comune anche alla donna, ha come punto dolente lo scopo di garantire un sostegno economico ai soggetti che vivono da soli o con familiari conviventi non in grado di occuparsi di loro per motivi di salute certificabili o impegni di lavoro. Si tratta dunque di un vincolo di pagare un familiare non convivente o un operatore esterno di fiducia “scelto” dalla stessa persona con disabilità, per “garantire una migliore qualità della vita e la permanenza all’interno dell’abitazione”. Inoltre, specifica la Corte, il contributo è ammesso per persone laddove “malgrado la percezione di redditi da parte dei familiari – con impegni di lavoro – renda più agevole, nell’ambito del loro dovere di provvedere al mantenimento ed alla cura del soggetto con disabilità convivente, il pagamento del personale destinato all’assistenza della persona, questo contributo economico è stato negato ad un nucleo indigente con il marito disposto ad assistere la moglie” (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).
Per noi che leggiamo, una scelta libera è tale in assoluto. Non si può parlare di scelta se questa viene condizionata da un vincolo. La qualità della propria vita si sceglie da se. In Italia oltretutto ci sono anche delle leggi ai sensi delle quali i familiari possono essere assunti come dipendenti nel caso vi siano in famiglia disabili gravi. In questa situazione – secondo la Corte – il Comune si è basato in maniera cieca sulla Delibera 63 del 2004, dato la donna aveva scelto come operatore di fiducia convivente il marito ma la presenza fisica di questi in casa gli ha comportato la negazione dell’assistenza. Ne consegue “che il marito poteva occuparsi della moglie ma senza disporre di mezzi per far fronte alle sue esigenze in quanto costretto a lasciare il lavoro per assisterla e unico familiare “abile” al lavoro”. Ciò vuol dire che “la Delibera non tiene conto tra i beneficiari le persone che abbiano il supporto di un familiare convivente presupponendo che questi abbia il “dovere morale” di dare assistenza nella gestione della vita del soggetto con disabilità “in situazione di particolare gravità” (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013). La Corte ha perciò guardato al caso specifico, tenendo conto anche delle personali difficoltà economiche della donna e della sua impossibilità sia di produrre reddito da se da destinare alla propria assistenza, sia di produrlo da parte del suo nucleo familiare definito “al limite dell’indigenza”. Motivo per il quale poi il Comune, a questo nucleo, negli anni ha destinato altre risorse economiche per far fronte alle “elementari esigenze di vita”. Il Tribunale evidenzia che ad una situazione ancor più bisognosa di tutela non si è data una risposta adeguata non adottando dei “ragionevoli accomodamenti” che potevano essere presi in considerazione data la ratifica della Convenzione ONU, consentendo che il contributo fosse dato al marito disoccupato per consentire alla donna di vivere dignitosamente. Attraverso un atto apparentemente neutro (discriminazione indiretta) si è messa una persona con disabilità in posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.
1.1.1.1 Osservazioni: gli elementi positivi nella risposta del Tribunale
Il Tribunale evidenzia l’ingiustizia della Delibera 63 del 2004, applicata in maniera cieca e senza tener conto dell’impatto che poteva avere nella vita quotidiana della donna rispetto alle sue specifiche esigenze. Non solo: il Tribunale sottolinea che di fronte a situazioni bisognose di servizi essenziali, il Comune “scarica” addosso ai familiari conviventi ogni tipo di onere materiale sulla base del “dovere morale” di dare assistenza alla persona con disabilità. Una mentalità dell’abbandono, che da sempre esiste ed è dura a morire. Una moralità spesso richiamata perché a costo zero – non fornendo i mezzi per affrontare la situazione – la Pubblica Amministrazione si solleva dal suo dovere e , oltretutto, non riconoscendo il lavoro di cura del familiare convivente – dunque presente 24 ore per ogni esigenza – con pari dignità degli altri lavoratori. Quel “dovere morale” il familiare convivente lo svolge ampiamente per tutto l’arco della sua vita, ogni santo giorno, e per tutto l’arco della giornata . Perché le persone con disabilità non hanno esigenze scandite da orari fissi e ridotti: la condizione della disabilità coinvolge continuamente se stesse e chi gli sta intorno. Anche compensare una parte del lavoro continuo di assistenza, è un diritto sacrosanto e non solo un dovere morale.
1.1.1.2 Osservazioni: potenziali criticità nella risposta del Tribunale
C’è però un aspetto potenzialmente critico da sottolineare nella risposta del Tribunale. Si premette che è chiaro che quello sotto giudizio è un caso specifico, e dunque la Corte ha dovuto tener conto delle difficoltà della donna a produrre reddito sia da parte sua che da parte del suo nucleo familiare definito “al limite dell’indigenza” tanto da sopravvivere con altri sussidi dati dal Comune. Ma è altrettanto evidente che nell’accogliere la richiesta di supporto, la Corte ha sottolineato l’impossibilità di tutto il nucleo in questione, a “produrre reddito da destinare all’assistenza” definendo la situazione ancor più bisognosa rispetto ad altri nuclei con persone con disabilità ai cui familiari lavoratori, effettivamente, la delibera Comunale 63 del 2004 concede l’erogazione economica. Una considerazione simile ha un grande errore di fondo e contiene un messaggio che non deve passare, proprio partendo da questo caso che per la prima volta accerta la discriminazione nel settore sociale. Infatti, il rischio è che questa situazione specifica possa diventare un “modello antidiscriminatorio” esteso a tutti, che collega il diritto all’assistenza indiretta all’incapacità lavorativa della persona con disabilità e alla povertà assoluta del suo nucleo familiare. Mettere le persone con disabilità o affini nella condizione di scegliere se lavorare, con la consapevolezza di non avere alcun supporto secondo certe politiche, o poggiarsi esclusivamente sul welfare, sapendo di avere solo a quel punto un sostegno essenziale, è sia immorale che discriminatorio. La discriminazione sta rispetto ai nuclei composti esclusivamente da persone non disabili perciò, il paragone il giudice lo avrebbe dovuto fare in relazione a questi nuclei. Il motivo è che la produzione di reddito da lavoro – nei nuclei familiari con persone con disabilità come in qualunque altro – serve ad affrontare le esigenze di vita quotidiana legate al sostentamento. E tutte le persone con disabilità gravi o con in situazioni di particolare gravità devono essere aiutate nelle esigenze di vita essenziali (alzarsi, lavarsi, vestirsi, mangiare, uscire) che comportano costi economici (ma anche fisici e morali) che portano spese maggiori rispetto alle persone non disabili che non hanno le stesse necessità.
Un reddito da lavoro non può sopportare i costi dell’assistenza che è un diritto “essenziale “ che vale sia per le persone con disabilità in povertà assoluta, sia per quelle non indigenti ma che paradossalmente potrebbero diventarlo a loro volta. Tanto è vero che, laddove di fatto si ostacolano determinate fasce della popolazione ad una partecipazione attiva ed effettiva al tessuto lavorativo della società, bloccando l’accesso alle prestazioni e facendo ricadere ogni onere sulle entrate da lavoro e quindi destinate al sostentamento, ci si può trovare a non farcela più materialmente, moralmente e fisicamente ed ad essere costretti a diventare solo consumatori diwelfare. Quindi anche in questi casi il rischio di emarginazione ed esclusione sociale è elevato.
A questo punto potrebbe saltar fuori il solito discorso puerile “e allora i ricchi…?”: anche in presenza di reddito da lavoro più elevato, la persona che lo percepisce e lo dichiara regolarmente, paga (o ha pagato se è andata in pensione alla fine del percorso lavorativo) tasse in proporzione per garantire le risorse per se e per tutti gli aventi diritto. Perciò di fronte a bisogni di vita essenziali, ha il diritto di godere delle prestazioni a sua volta. Anche perché additare i redditi da lavoro da nababbi, e non se ne vedono molti, in genere è uno spot propagandistico usato dal decisore pubblico per tagliare in maniera estesa ed aggressiva applicando soglie minime di accesso rasenti l’indigenza. Tutti questi aspetti sono ancora più evidenti se chi produce reddito da lavoro è la persona disabile stessa. Oltre al dispendio economico evidenziato ed anche di energie giornaliere suo e di chi gli sta intorno molto spesso, infatti, non essendoci mezzi pubblici accessibili ed essendo quelli di categoria carenti oppure con possibilità d’uso legata sempre al reddito, la persona con disabilità deve sopportare ulteriori costi economici del trasporto giornaliero con l’autovettura privata. Si tratta perciò sempre di spese da sostenere con le entrate da lavoro. Le persone con disabilità e i loro nuclei familiari sono dunque anche produttori di un welfare – versamento dei contributi – al quale paradossalmente non possono accedere di fronte al metro della completa indigenza o anche delle soglie minime. Una contraddizione che comunque già avviene nella realtà giornaliera attraverso lo strumento dell’ISEE. Ma di cosa si tratta?
1.1.1.3 L’ISEE: uno strumento discriminatorio che già esclude molti aventi diritto produttori di welfare
Un altro aspetto da analizzare è che l’erogazione del contributo economico – in generale – da parte del Comune “varia in base ai valori ISEE relativi al nucleo familiare del disabile” (circostanze ribadite anche nel caso di Ascoli e che possiamo leggere anche in un parere del difensore civico regionale rispetto al caso (cfr. qui per il parere). Attraverso lo strumento dell’ISEE, si definiscono dei tetti di reddito al di sopra dei quali non si può accedere alle prestazioni sociali.
Guardando alla sentenza di Ascoli in maniera estensiva, a questo punto possiamo iniziare a pensare di far riconoscere a maggior ragione questo strumento come discriminatorio. E’ infatti la sentenza del Comune Marchigiano che comunque – al di la di alcune potenziali criticità analizzate in questo scritto – apre la via alla discriminazione nel settore sociale.
Perché lo strumento è discriminatorio dunque?: l’ISEE fissa delle soglie di accesso alle prestazioni talmente basse da rasentare il ridicolo e l’abuso. Con un criterio da “tagli lineari”, estromette ed emargina un grandissimo numero di persone titolari un diritto soggettivo essenziale. Una discriminazione perpetrata ulteriormente con il nuovo ISEE dove viene considerata reddito ogni forma di erogazione – indennità comprese – data alla persona con disabilità. In molti casi sono soglie rimesse alla discrezione degli Enti Locali. E proprio nei settori di diritti essenziali – come anche quelli dell’assistenza – dove, coerentemente con quanto fino ad ora spiegato, non dovrebbe proprio esserci un tetto di accesso.
1.2 Secondo argomento del Comune: il vizio formale dell’azione legale della donna di Ascoli
L’Ente Comunale ha obiettato la legittimità rispetto alla forma dell’azione legale della donna, perché quando è stata avviata, era ancora sotto giudizio del Tribunale la questione della legittimità proprio della delibera 63 del 19/03/2004,
1.2.1 La risposta del Tribunale: una lezione positiva di diritti umani al di della burocrazia ottusa
Il Tribunale ha chiarito che la tutela predisposta dagli art. 2 e 3 della L. 67/2006 va valutata non tenendo conto completamente e ciecamente di verifiche “formali” ma considerando un altro aspetto: anche di fronte a provvedimenti ed attività amministrative legittime da parte della Pubblica Amministrazione (del Comune in questo caso), se da queste ultime la persona con disabilità ne trae “particolari svantaggi” nella vita reale proprio a causa della sua condizione di disabilità, allora si ha discriminazione. Secondo il Tribunale si tratta di una diversità di punti di partenza da cui valutare la situazione, che fa cadere l’obiezione formale del Comune di Ascoli Piceno. Il Tribunale infatti, mette al centro la persona umana e fa riferimento all’art. 2 della legge 67 del 2006 e alla definizione di discriminazione diretta e discriminazione indiretta: “Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata (..) sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone” (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).
Di più: la Corte guarda anche oltre confine facendo riferimento agli 2 c 5 della Convenzione ONU sui dirìtti umani delle persone con disabilità, per un’altra discriminazione che deriva dal rifiuto – da parte del Comune – di un “accomodamento ragionevole”, e cioè di un mezzo inteso come tutte “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati (che non impongono un onère sproporzionato o eccessivo da valutare non tanto in termini economici, ma di adeguatezza del mezzo – cioè dell’adattamento – al fine – esigenza particolare della persona) adottati, ove ve ne sia necessità, in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali sulla base dell’eguaglianza con gli altri.”
Ed è in questo accomodamento che devono unirsi sia a monte le attività e gli atti diretti a tutelare gli interessi di tutte le persone con disabilità, sia a valle le azioni e i provvedimenti che si rendano necessari riguardo la particolare situazione in cui si trovi uno specifico soggetto con disabilità, allo scopo di garantirgli il godimento “dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo” (art. 2 Conv. ONU).
Il Comune invece, che dovrebbe essere l’Ente più vicino al cittadino e conoscere meglio le sue esigenze, si arrocca dietro un presunto vizio di forma di una Delibera ingiusta, che lascia non poche perplessità e sacrifica la persona e i suoi diritti alla burocrazia ottusa e ignorante in materia di diritti umani. Ed è proprio il Tribunale che – a mio parere – evidenzia i limiti e la mancata preparazione dell’Ente ricordando come dovrebbe essere orientata la sua azione morale – nel favorire una nuova coscienza sociale pubblica – e pratica. Infatti, la Corte ricorda di “valutare nel caso l’attività amministrativa (del Comune) per verificare se discriminatoria o meno, richiamando a una “coscienza sociale pubblica” che guardi le persone con disabilità non come soggetti da proteggere nella loro diversità ma da mettere in condizione di godere degli ambiti di tutela riconosciti ad ogni individuo, mediante l’adozione delle più adeguate misure. Un concetto che viene dall’ambito soprannazionale – e che ancora sfugge alla nostra tradizione giuridica – che però si scontra con le scarse risorse di cui dispongono le Pubbliche Amministrazioni”. I diritti umani come da Convenzione sono definiti dal Tribunale come di “Importanza basilare e di immediata applicazione precettiva” vale a dire, che devono essere applicati immediatamente e obbligatoriamente senza bisogno di altre norme (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).
Un sorriso amaro: leggere che alla nostra tradizione giuridica ancora sfugge un concetto da diversi anni inserito nella legislazione sovranazionale, recepita con legge statale, rende chiara ancor di più l’assoluta ignoranza – o la volontà di ignorare certe norme – del decisore pubblico
1.3 Terzo argomento del Comune: le risorse scarse
L’Ente Comunale ha negato l’assistenza per mancanza di risorse.
1.3.1 Il Tribunale: le risorse scarse non possono essere un motivo per generare esclusione sociale
Anche in caso di risorse scarse, gli Enti Pubblici sono obbligati – in situazioni di disagio – a trovare un “accomodamento ragionevole per non creare esclusione sociale”. Nel caso specifico si sarebbe trattato di un accomodamento che il Comune non avrebbe mai cercato di trovare, continuando a rifiutare alla donna l’assistenza domiciliare indiretta attraverso la collaborazione del marito anche in epoca successiva all’entrata in vigore in Italia – con legge 18 del 2009 – della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ai sensi delle quali occorreva che il Comune rivedesse i criteri di assegnazione del beneficio economico attraverso gli “accomodamenti ragionevoli” che avrebbero consentito alla donna di vivere in maniera dignitosa la propria esistenza. Da ricordare che in generale – come precedentemente accennato – la mancata predisposizione dell’”accomodamento ragionevole” costituisce discriminazione perché una persona non supportata in maniera adeguata si viene a trovare esclusa socialmente ed emarginata. E questo tipo di discriminazione è vietata sia dalla Convenzione ONU che dalla normativa nazionale (legge 67/2006).
2.1 L’intervento della Regione Marche
La vicenda della donna, ad un certo punto ha avuto un piccolo passo avanti perché il ruolo professionale del marito è stato riconosciuto dalla Regione Marche che se ne è assunta l’onere nel 2010 inserendo la famiglia in un progetto di Vita indipendente con una partecipazione alla spesa del Comune di Ascoli Piceno per il 25%. Nella “Vita indipendente” i fondi vengono dati direttamente alla persona con disabilità che organizza in modo autonomo la propria assistenza. In questo senso è stato interessante leggere il parere del difensore civico regionale (cfr. qui) perché ammette con certezza che l’assistenza indiretta erogata in tutto o in parte su fondi Regionali ai sensi della Legge Regionale 18/96 (modificata e integrata dalla Legge Regionale 28/2000) riguarda sicuramente anche prestazioni date da familiari conviventi. Inoltre, ricorda che l’art. 12 della L.R. 18/2006 “mira a favorire la permanenza della persona in situazione di disabilità nel proprio nucleo familiare e nell’ambiente sociale e la Regione concorre nelle spese sostenute da Comuni singoli o associati e dalle Comunità Montane per garantire il servizio di assistenza domiciliare “prioritariamente a persone in situazione di disabilità gravissima” in attuazione della legge 162/1998. Però, ribadisce che quando il Comune eroga contributi con fondi propri ha una libera valutazione sulle proprie politiche – sulla base delle norme che può darsi da se – e ricollega questa libertà di azione proprio alla delibera 63 del 19.03.2004 che avrebbe “l’obiettivo di garantire migliore qualità della vita attraverso la presenza in casa di un operatore”.
Insomma, il difensore civico regionale nel suo parere non entra nell’ingiusta contraddizione del Comune tra la scelta (negare l’assistenza perché garantita da un familiare) e l’obiettivo da conseguire (esigenze reali e specifiche della persona che ha diritto di scegliere da chi farsi assistere che la propria qualità della vita) sulla base della delibera 63 del 2004. Ammette però che potrebbe essere discutibile la coerenza della scelta del Comune , ma non rientra nelle sue competenze affrontare la questione. Inoltre, sottolinea la delicatezza della posizione del Comune proprio perché le scelte che deve compiere non possono non tener conto della discriminazione e del principio di non discriminare sancito dalla legge 67 del 2006. Perciò, chiarisce un aspetto importante perché anche se non entra nella questione, ricorda che le norme che il Comune può darsi da se non devono essere in contraddizione con le “norme positive di rango superiore” e dunque, in questo caso con la legge 67 del 2006 che è dello Stato e riguarda la tutela di diritti pubblici soggettivi. E quando si parla di diritti civili la legge statale – nell’ambito delle sue competenze esclusive – ha preminenza sulle possibili ingiustizie degli atti emanati dall’Ente Comunale.
2.1.1 Una criticità delle Leggi Regionali 18/96 e 28/2000
In entrambe le Leggi della Regione Piemonte (18/96 e 28/00), è usata più volte la nozione di “gravissimo”. E’ da sottolineare – anche guardando la data di emanazione delle rispettive leggi locali – che la Legge Statale104 del 1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) parla di “particolare gravità” e “situazione di gravità”. E la successiva Legge nazionale 162 del 1998 (Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, concernenti misure di sostegno in favore di persone con handicap grave) parla di “handicap grave” o di “situazioni di particolare gravità”.
La licenza linguistica delle Leggi Regionali non è un semplice fatto grammaticale. Sull’uso di quell’ “issimo” il dibattito – anche attuale – è rovente per due motivi. Il primo è che molte persone con disabilità ritengono che l’uso di “gravissimo” porta ad una ulteriore rigidità ed arbitrio nell’accesso ai diritti perché non lascia spazio a una valutazione di pari dignità a situazioni diverse ma comunque gravi. Inoltre, ritengono che il termine “gravissimo” nelle norme nazionali di riferimento non esiste e dunque è illegittimo. E a ben vedere, considerata anche l’approssimatività di conoscenze, competenze ed azioni degli Enti Locali non è così assurdo porsi il problema. Anche perché l’abuso il più delle volte si ripercuote su tutte le persone con disabilità, , “gravissimi” compresi se proprio vogliamo usare questa parola. E’ accaduto per la donna di Ascoli ma quotidianamente accade ogni volta che gli Enti Pubblici non mantengono parola e non rispettano le leggi tagliando risorse senza guardare in faccia a nessuno. Se poi pensiamo che il metro di valutazione della Convenzione ONU sulle persone con disabilità, non è intrappolare la persona in certe categorie di “gravità” ma è quello del bisogno individuale del soggetto, cioè il suo modo di funzionare in relazione alla sua interazione con l’ambiente, la cosa è ancora più illegittima.
3.1 Un risarcimento economico, fisico e morale: l’impatto patologico sulla sfera psico-fisica della persona
Il Tribunale ha definito il Risarcimento da parte del Comune per l’assistenza domiciliare indiretta, considerando un arrotondamento anche per lo “stress” – cioè per l’effetto negativo psico-somatico – subito dalla donna a causa della discriminazione di cui è stata vittima. Lo stress dunque si ripercuote sulla salute mentale ma anche fisica della persona. Una premessa: la persona è una unica entità fatta di psiche, anima per i credenti, e corpo. Non si possono separare gli aspetti che fanno di una persona una “persona umana”. Tutti questi aspetti interagiscono fra loro. E’ importante premettere ciò perché le prestazioni assistenziali – LIVEAS (Livelli Essenziali di Assistenza Sociale) che sono essenziali alla vita della persona con disabilità – non rientrano nei LEA (Livelli Essenziali delle Prestazioni) garantiti dal Sistema Sanitario Nazionale a chiunque ne ha bisogno, ma sono state demandate alla Legislazione degli Enti Locali. Una Legislazione che però ricollega il diritto alle risorse di bilancio e che non è omogenea su tutto il territorio nazionale perché rimessa alle singole amministrazioni locali. Non dimentichiamo che la Costituzione stabilisce che il legislatore statale ha competenza legislativa esclusiva per la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti idiritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2, lett. M, Cost.). Trascurare dunque i diritti sociali – dove rientra anche l’assistenza – separandoli (LIVEAS), non determinandoli e rimettendoli in concreto al decisore locale, che comunque ha fallito e creato forti disuguaglianze, è già contestabile. Al di la dell’aspetto normativo poi, l’esperienza ha mostrato l’inefficacia anche culturale e sostanziale di questa divisione. Infatti, da più parti si è sottolineato che separare la sfera sanitaria dalla sfera sociale ha permesso di far uscire le persone con disabilità da una visione di “malattia”. Perché la disabilità non deriva necessariamente da una malattia. Indubbiamente esiste anche la malattia ma è solo un aspetto del mondo della disabilità, non il criterio unico con cui guardare alle persone con disabilità. Eppure il tempo ha mostrato che questa “separazione” si è trasformata solo in un’arma per tagliare risorse ed escludere moltissimi individui dal godimento dei diritti. E se la persona è un unico insieme di tutte le sue parti, allora è giusto che il suo bisogno venga rivendicato con forza come un diritto che deve essere garantito sempre e comunque. Deve quindi essere garantito come LEA. In questo senso ci può far riflettere anche il risarcimento per stress, che – a mio avviso – è importantissimo come “precedente” per portare avanti questa battaglia.
ANALISI DI DUE PUNTI DELL’AZIONE LEGALE NON ACCOLTI DAL TRIBUNALE CIVILE
4.1 Primo punto del ricorso non accolto dal Tribunale: il sistema delle Cooperative non si scalfisce…?
Nella sua azione legale, la donna con disabilità grave, ha richiesto anche un risarcimento per la mancata prestazione di assistenza domiciliare diretta (cioè quella attraverso la quale l’operatore è fornito da cooperative dell’Ente Pubblico) – nell’anno 2010 – in maniera compatibile con le sue esigenze, Infatti, erano state concesse dal Comune prestazioni per un massimo di 8 ore settimanali, considerate però insufficienti a soddisfare le necessità dell’interessata.
Il Tribunale ha però stabilito che “non è discriminatoria la mancata prestazione di assistenza domiciliare diretta – offerta per un massimo di 8 ore settimanali – perché è un beneficio da stabilire nel rispetto “del pari diritto degli altri richiedenti e che per sua specifica finalità (cura dell’igiene personale e degli ambienti domestici) non si può convertire in contributo economico”. Il rigetto del Tribunale rispetto a questo specifico aspetto pone diverse domande e perplessità.
Prima perplessità: il tetto massimo di ore concesse
Innanzitutto, partire da un “massimo di 8 ore settimanali”, significa considerare che – su sette giorni settimanali – la persona con disabilità per la cura della propria igiene personale e della propria casa ha a disposizione l’aiuto di cui necessita per circa un’ora e otto minuti e mezzo al giorno!. Sembra quasi banale sottolineare che quantificare un tempo così ridotto per entrambe le esigenze di cura, significa forse supporre che le persone con disabilità non hanno diritto a igienizzare se stesse tutti i giorni nei dovuti tempi od anche la propria casa. In un’ora al giorno o si fa una cosa o l’altra e , comunque, in maniera a dir poco sommaria.
Seconda perplessità: il pari diritto con gli altri
Inoltre, il “pari diritto” con gli altri richiedenti rispetto all’ipotesi di elargire più ore, fa cadere anche il Tribunale nell’errore di non guardare alle esigenze personali di ognuno ma di assoggettarle ai vincoli di bilancio. E lo fa accettando il “livellamento” – per tutte le persone con disabilità interessate – con una quantità “fissa” e determinata solamente con criteri di risorse scarse a disposizione del Comune.
Terza perplessità: la specifica finalità dell’assistenza diretta
Ancora: secondo la Corte l’assistenza diretta per sua “specifica finalità – cura dell’igiene personale e degli ambienti domestici – non si può convertire in contributo economico”. Questo è un aspetto criticissimo: l’assistenza diretta è quella fornita dall’Ente con personale imposto proveniente da Cooperative ruotanti “nel sistema”. Dire che la prestazione non si può convertire in contributo economico ha senso solo rispetto alla richiesta da parte dell’interessato di una formula piuttosto che un’altra. In altre parole, se la persona con disabilità richiede la formula dell’assistenza diretta, questa certamente prevede modalità di imposizione di personale scelto dall’Ente. Ma dire che la prestazione di assistenza diretta non si può convertire in contributo economico per il suo “specifico scopo” che è “la cura della persona e della propria casa”, cambia di molto le cose e soprattutto quando – come in questo caso – la persona era costretta a richiederla perché gli veniva negata la prestazione essendosi avvalsa del suo diritto di scelta – che si estende a chiunque di fiducia – attraverso la modalità di assistenza indiretta.
C’è da dire che esiste anche una formula “mista” che prevede sia l’erogazione dell’assistenza diretta per una parte e di assistenza indiretta per un’altra. Ma questa formula è legata sempre e comunque alla scelta della persona. Non è certo la “finalità” in se e per se che vincola a sopportare imposizioni esterne. E questo ancor di più se l’obbiettivo è la cura della persona e si violano – senza il suo consenso e sotto costrizione dovuta dalla necessità – le sfere della sua privacy fisica e familiare negli spazi della vita privata.
La domanda infatti che nasce è: quando si tratta di farsi mettere le mani addosso e nei propri ambienti domestici, si tratta di un “fine” che non conosce altre soluzioni se non quella che lo debba fare chiunque ed estraneo….? ….Anche il diritto alla privacy collegato al diritto di scelta è un diritto umano (in questo senso cfr in “imporre l’operatore e negare l’assistenza indiretta è reato?”). Potrebbe (ipotesi) trattarsi di un giro di parole quello di collegare l’impossibilità di quantificare economicamente l’assistenza diretta ad uno scopo – e non tanto al fatto che quel tipo di modalità se richiesta prevede certi presupposti – proprio per blindare e non intaccare il circuito delle Cooperative e non dar conto di quanto costa effettivamente ogni ora di assistenza fornita da queste realtà?
Domanda legittima, se si pensa che invece l’assistenza indiretta garantisce alla persona con disabilità di scegliere da chi essere assistito, ma anche ai Comuni di avere un notevole risparmio economico. Non solo: con la modalità indiretta si garantisce un regolare contratto di lavoro alla persona che aiuta quella con disabilità. E dunque, dato che le Cooperative sociali hanno delle tariffe orarie…. che sono ovviamente da moltiplicare per le ore concesse per avere un costo totale……sorge un’ ulteriore domanda: renderle trasparenti e pubbliche forse destruttura?….Perché non riportare – al limite – quanto costa quel massimo di 8 ore giornaliere concesse con modalità diretta….?……
4.2 Secondo punto del ricorso non accolto dal Tribunale: l’esclusione dai tavoli di decisione
Nella sua azione legale, la donna con disabilità grave, ha richiesto anche un risarcimento per la sua esclusione da tutti i tavoli della concertazione per i problemi della disabilità. Il Tribunale ha però stabilito che non discriminatorio il mancato invito della ricorrente ai tavoli di concertazione perché la Cooperativa (di riferimento del Comune) risultava cancellata dal registro delle imprese dal 6 aprile 2010. Nel ricordare che alla donna non era stata fornita l’assistenza diretta proprio nell’anno 2010 perché la stessa non l’aveva ritenuta compatibile con le proprie necessità, non avendo elementi per giudicare in modo appropriato questo aspetto, ritengo che sarebbe stato legittimo – ai fini della trasparenza – che la diretta interessata avesse conosciuto prima i motivi per i quali quella Cooperativa era stata cancellata dal registro delle imprese. Questo sia perché destinataria dei suoi potenziali servizi durante la sua esistenza, sia perché molto spesso alcune persone con disabilità lamentano il fatto che sono escluse dai tavoli di concertazione che le riguardano a causa di un presunto dominio delle Cooperative che parlano prepotentemente in nome e per conto degli interessati. E se questo fosse confermato, e forse successa anche in questo caso una estromissione simile………?
5.1 Una Sentenza è un fatto solo privato ….? Ed è anche una eccezione…?
Il Tribunale specifica che il convenuto, cioè il Comune, non è condannato a divulgare la sentenza sul giornale perché si tratta di un “provvedimento privato con accertamento di discriminazione per cui non è necessaria ne opportuna la divulgazione” (cfr. qui a pag.8: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013). Chiariamo un punto: le Sentenze sono dei provvedimenti pubblici che con i dovuti “omissis” (cioè la dovuta copertura dei dati sensibili che riportano alle persone coinvolte) vanno resi disponibili e trasparenti. E infatti anche la sentenza della Corte di Ascoli Piceno è disponibile sul sito del Tribunale e nel corpo della sentenza risultano coperti in nero i dati sensibili. Il ricorso di una persona è sempre un fatto privato, e quel fatto aprirà la via a tante altre persone che a loro volta porteranno il loro caso, Nel caso specifico di Ascoli a maggior ragione: si parla di discriminazione, e per la prima volta viene riconosciuta nel settore sociale nell’ambito di una legge che tutela ed esiste ma che viene costantemente ignorata. Ogni discriminazione colpisce la persona in modo diverso ed è un fatto privato….per combatterla occorre parlarne, conoscerla, riconoscerla e chi può apra la via agli altri. Perché chi discrimina conta proprio sull’omertà generale.
Anche qui sorge una domanda: non è che questo richiamo alla natura privata della sentenza, e la conseguente omissione della pubblicazione sul giornale, non sia un andare incontro a quel Comune per scongiurare che tanti altri avrebbero potuto venire a conoscenza del riconoscimento sia della discriminazione che del risarcimento e di conseguenza fare lo stesso tipo di ricorso…?…..
Un dubbio ancora più forte se pensiamo che nella sentenza di Ascoli (a pag. 6) leggiamo che il Tribunale evidenzia che “ad una situazione ancor più bisognosa di tutela non si è data una risposta adeguata non adottando dei “ragionevoli accomodamenti” che potevano essere presi in considerazione perlomeno dopo la ratifica della Convenzione ONU sopra richiamata permettendo IN DEROGA ad essa – cioè in via di eccezione rispetto alla Convenzione – che il contributo fosse dato al marito disoccupato per consentire alla donna di vivere dignitosamente”. Ma nella Convenzione ONU delle persone con disabilità non c’è traccia di divieti a scegliere un proprio familiare convivente per farsi assistere. La Convenzione parla di libera scelta come diritto umano senza costrizione alcuna su con chi vivere, dove vivere e da chi farsi aiutare.
Non è che si vuole far passare per “eccezione” quello che eccezione non è, sempre per “accontentare” l’Ente Pubblico ed evitare che molti altri agiscano legalmente o pretendano a gran voce il loro diritto alla scelta….? Visti i recenti fatti di cronaca e gli scandali malavitosi delle cooperative sociali connesse anche con la politica, il dubbio è legittimo.
di Giovanni Cupidi