«Con la fine di giugno ci siamo lasciati alle spalle il mese del Pride per entrare in quello del Disability Pride. Un orgoglio meno conosciuto rispetto a quello della comunità LGBTQ+ ma che per me ha un grandissimo valore. Mi auguro che possa ottenere presto la stessa risonanza»
Area Marina: «Sono una persona con disabilità e ne sono orgogliosa».
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La parola che risuona forte in questi mesi è orgoglio, un termine molto significativo che ogni anno affonda le sue radici sempre più in profondità. Con la fine di giugno ci siamo lasciati alle spalle il mese del Pride per entrare in quello del Disability Pride. Un orgoglio meno conosciuto rispetto a quello della comunità LGBTQ+ ma che per me ha un grandissimo valore, e mi auguro che possa ottenere presto la stessa risonanza. La scelta del mese di luglio non è un caso, proprio come giugno serve a commemorare i moti di Stonewall, a luglio si celebra l’anniversario dell’approvazione dell’ADA (Americans with Disability Act), una legge sui diritti civili che proibisce la discriminazione basata sulla disabilità.
Se la comunità LGBTQ+ è sempre stata spinta dalla società a provare vergogna per il proprio orientamento sessuale e l’identità di genere, mostrare orgoglio significa rivendicare sé stessi all’interno di una cultura eteronormata. Ma cosa significa per una persona con disabilità provare orgoglio?
Questa è una domanda che mi sono posta molte volte e anche se ho intrapreso da tempo la strada verso la consapevolezza, sento che il mio percorso è ancora in divenire.
È difficile associare una singola definizione alla disabilità, perché si tratta di un concetto multidimensionale dove all’interno transitano una serie di condizioni spesso molto differenti le une dalle altre. Quello che però possiamo affermare è che ha un’influenza più meno grande sulla vita delle persone, un’influenza che in molti casi è data da una società che non ha mai previsto la nostra esistenza.In un mondo abituato a dettare standard, la disabilità è sempre stata associata a un’anomalia del corpo (come se il corpo non fosse già di per sé una macchina imperfetta) e quello che nell’immaginario collettivo non funziona riceve generalmente due tipi di reazioni: l’avversione o la pietà, che si manifestano con una fantasia di comportamenti su cui ho avuto modo di ironizzare tantissime volte.
Tra gli stereotipi che ruotano intorno alle persone disabili, l’infantilizzazione è sempre stato quello che ho incontrato maggiormente. Sguardi meravigliati di fronte a un titolo di studio o un’esperienza professionale, contatti fisici non richiesti e vocine da far invidia ad Alvin Superstar, hanno tirato fuori il mio miglior sarcasmo. Eppure nonostante sia sempre stata capace di rispondere a dovere all’eccessiva meraviglia o ad attestati di stima più falsi di una banconota da tre euro, questi comportamenti hanno finito per infiltrarsi comunque tra le microfessure della mia psiche, e scavando come l’acqua nella roccia hanno influenzato inconsciamente alcune mie scelte.
Con il tempo ho imparato a disinnescare tanti atteggiamenti dettati dal rincorrere una vita priva di disabilità e su alcuni ci sto ancora lavorando. Ecco perché il mio cammino verso una piena liberazione è ancora in corso.
Nascere in una cultura che instilla nelle persone la paura di diventare disabile ha sempre avuto un grande impatto su di me. Non è stato semplice rivendicare una condizione che il mondo considera sinonimo di disgrazia e incapacità a tutti i livelli. Mi ha portato a una spasmodica ricerca di azione e conquista, al punto che a volte mi chiedo: dove finisce la mia ambizione e dove comincia il mio desiderio di allontanarmi da un’etichetta a cui è stato associato un prodotto fallace?
Riconoscere ciò che è realmente nostro desiderio da ciò che deriva da una pressione esterna è un esercizio continuo con cui sto imparando a convivere. Ed è qui che fa capolino quello che per me è il Disability Pride: smettere di rincorrere una conformità che non mi appartiene per seguire solo ciò che è affine alla mia persona, mettendo dentro traguardi e fallimenti, capacità e limiti, dove la disabilità alla fine è semplicemente parte di tutto questo.
(vanityfair.it)
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