Chicco Cotto e le altre cooperative che puntano sui giovani con disabilità: «Funziona e attira capitali»
«Ogni giorno, nella vita quotidiana, io riconosco intorno a me molti uomini poeti che non dicono una parola “poetica” nel senso convenzionale, ma che si “comportano” da poeti», scriveva Pier Paolo Pasolini ne Le belle bandiere, «e infinite volte mi succede di commuovermi di fronte a questa poesia non testimoniata da sé stessa, concomitante con la vita, trascinata via con la vita».
Nei manicomi
Era il 15 aprile 1965. I bambini e i giovani autistici erano ancora rinchiusi in larga parte nei manicomi, spesso legati al letto o a un termosifone come nelle foto agghiaccianti di Villa Azzurra a Torino. Franco Basaglia lavorava ancora a Gorizia e sarebbe riuscito solo tredici anni più tardi a spingere il Parlamento a votare la «sua» riforma. In Italia e nel mondo tirava un’aria ancora così fetida per i «matti» che non solo era passata nel 1955 l’idea dei «genitori frigorifero» responsabili diretti delle difficoltà dei bambini autistici ma nel 1967, due anni dopo quelle parole del poeta, scrittore, regista di Casarsa, lo psicanalista viennese Bruno Bettelheim, che pure era sopravvissuto ad Auschwitz forse avrebbe potuto avere una sensibilità diversa, si spinse a teorizzare nel saggio The empty fortress, poi tradotto in italiano col titolo La fortezza vuota, la piena e totale responsabilità della madre nella catastrofe (così la chiama l’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici: una catastrofe) dell’autismo.
Pasolini
Eppure aveva ragione lui, Pasolini. La vera poesia può essere fuori da tutti gli schemi. Lo dimostrano, per fare un solo esempio, i bellissimi e coloratissimi sandali disegnati dai ragazzi autistici friulani esposti di recente dalla casa di moda milanese Marni a Hong Kong e venduti con grande successo sui mercati orientali. Creatività pura. Liberatoria. Poetica. (…) Sarà un caso che da una decina di anni le associazioni che si occupano dell’autismo si sono messe insieme nella Federazione Associazioni Nazionali a Tutela di Autismo e Sindrome di Asperger il cui acronimo è «Fantasia»? Quello è il punto di partenza, il radicale rovesciamento della domanda che troppi imprenditori, troppe aziende, troppi negozi, troppi enti fanno quando si trovano davanti alla prospettiva di offrire un lavoro a un disabile: «Ma cosa gli faccio fare? Come si può adattare alla nostra realtà? Dove lo metto?»
Dodici millenni e mezzo fa
Anche la famiglia preistorica del nostro nonno chiamato «Romito 8», dodici millenni e mezzo fa, in quello che oggi è il parco del Pollino in Calabria, dovette porsi il problema. Il poveretto, rimasto quasi completamente paralizzato a causa di una brutta caduta sui talloni in un salto dall’alto al basso, non avrebbe mai più potuto essere utile ai suoi familiari e al suo clan nel suo mestiere: la caccia. Non lo abbandonarono a sé stesso, però. Lo riportarono nella grotta in cui vivevano e, come hanno scoperto gli archeologi e gli scienziati studiando il suo scheletro, cercarono di lenire i suoi dolori, gli furono vicini, gli trovarono un lavoro che gli consentisse di essere e più ancora di sentirsi utile. Aveva una robusta dentatura rimasta intatta. E si guadagnò da vivere masticando legno tenero, canne e radici buoni per fare sandali, corde o cestini… E fu, per quanto ne sappiamo, il primo diversamente abile nella storia. Fantasia. Questa ci vuole. Tanto più in un mondo che, come spiega il presidente dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, Rodolfo Masto, «molti imprenditori, troppo pigri per provarci davvero, preferiscono pagare una multa piuttosto che confrontarsi con il problema di assumere un disabile. Si lavano la coscienza e via. E tutto ciò in un mondo in cui anche certe professioni tradizionali, come quella del centralinista, sono spinte ai margini dalle nuove tecnologie perfino negli uffici statali o addirittura all’Inps».
L’avventura
Lo spiega benissimo, nel libro di Marco Ferrando Il coraggio di essere uguali, edito da Edizioni Terrasanta, uscito ieri, don Andrea Bonsignori, uno dei protagonisti dell’avventura social-imprenditoriale di «Chicco Cotto»: «Partiamo dalla fine: non siamo noi a scegliere una attività per i nostri ragazzi ma guardiamo in cosa sono bravi e poi sviluppiamo quella». Ed ecco, appunto, il piccolo grande boom della cooperativa sociale che, partita da un primo esperimento all’Istituto Cottolengo di Torino, gestisce oggi una rete di distributori automatici di caffè, snack e bevande. Impiegando quattro giovani autistici («L’idea mi venne vedendo alcuni ragazzi con autismo che raccoglievano cartacce e le ripiegavano in ordine perfetto. Ho pensato che potevano farlo con pacchetti di biscotti e patatine») per ogni dipendente, diciamo così, «normodotato». (…)
Ordine
Una cosa alla volta. Con ordine. Senza equivoci. Senza fretta. Senza confusione. Basti dire che nel laboratorio terapeutico-abilitativo del «Tortellante» di Modena, dove un gruppo di mamme e volontari dell’associazione Aut Aut ha costituito una vera e propria fabbrica artigianale di pasta fresca, i ragazzi autistici arrivano a fare ciascuno soltanto una piccola parte del tortellino. Quella per cui ognuno è più portato. Quella parte, però, è perfetta. E tutti insieme, sotto l’occhio vigile delle madri e l’ala protettiva di uno chef come Massimo Bottura, lui stesso padre di un ragazzo disabile, fanno tortellini buonissimi. Venduti anche ad imprese amiche come la Ferrari e portati a tavola anche al Senato o al Quirinale.
Il «Tortellante»
Vale per le sfogline e gli «sfoglini» del Tortellante di Modena. Vale per il progetto milanese PizzaAut di «avviare un laboratorio d’inclusione sociale attraverso la realizzazione di un locale gestito da ragazzi con autismo affiancate da professionisti della ristorazione e della riabilitazione». Vale per il progetto «Addolciamo l’autismo» che ha visto nascere grazie a Stefania Ruggiero, un’altra madre decisa a coinvolgere suo figlio e altri ragazzi autistici in un laboratorio di pasticceria che sforna oggi tre quintali di biscotti al mese. (…) E non per spirito di carità. Sempre di più, piuttosto, con lo stesso obiettivo di Chicco Cotto che, come scrive Marco Ferrando, «finora non solo ha funzionato ma addirittura attirato capitali» e «pone nei fatti di fronte a un trampolino, dove non tutti possono essere in grado di saltare. È il grande tuffo, il grande salto nel mare dell’ordinarietà, del voler essere realmente uguali». In fondo, come riassumono i giovani pionieri di Auticon, «l’autismo non è un errore di sistema, è un sistema operativo diverso».
(corriere.it)