di Marina Collu
La nostra cultura glorifica la maternità. Però se a desiderare un figlio è una donna con disabilità, la questione si ribalta. Pensare che una donna disabile possa diventare madre diventa quasi un’idea assurda e insana
Dall’ultimo medico non obiettore del Molise alla polemica tra Don Mirco Bianchi e Fedez, di recente l’aborto è tornato nuovamente argomento di discussione.
Sono passati più di quarant’anni dall’approvazione della legge 194, eppure nonostante i numerosi passi avanti fatti rispetto a un periodo in cui tante donne perdevano la vita per un aborto clandestino, il corpo delle donne ancora oggi rimane affare di qualcun altro.
È innegabile che avere il Vaticano in casa influenzi molte scelte di questo Paese, e se è vero che il Molise ha la percentuale di medici obiettori di coscienza più alta d’Italia, il resto dello Stivale non ha certo dati più incoraggianti.
Infatti, sono tante le persone convinte che di fatto la legge 194 non sia mai stata applicata a dovere proprio per l’elevata presenza di obiettori di coscienza nello Stato.
Come sempre prendo spunto da ciò che ci accade intorno per fare un passo indietro e scavare tra gli aspetti culturali che portano a situazioni del genere.
Esiste un’idea generalizzata che lega a doppio filo le donne alla maternità. Una donna che non è madre è una donna incompleta, una che faregbbe meglio ad ascoltare il suo “orologio biologico”. Secondo l’opinione comune una donna che sceglie di non avere figli prima o poi se ne pentirà. Perché se non ha alcun interesse nella gravidanza o nella genitorialità ha sicuramente qualcosa che non va, un problema personale da risolvere, e quando se ne renderà conto sarà troppo tardi ormai. Del resto come si fa a rifiutare la gioia più grande di tutte, essere madre?
Vivere in una cultura che glorifica la maternità ha un impatto enorme sulle donne che troppo spesso sentono di dover assolvere in tutto e per tutto al ruolo di madre anche se questo non rientra minimamente nei loro desideri. Coloro che scelgono di non riprodursi poi, finiscono per combattere con il costante senso di colpa instillato dal mito dell’istinto materno.
Ma la cosa non finisce qui, perché come sempre questa società non smette mai di stupirmi nel suo essere contraddittoria. Per l’immaginario collettivo la naturale conseguenza per una donna è sì la maternità, ma solo se la donna in questione rientra in determinati standard corporei.
La faccenda si ribalta completamente se a desiderare un figlio è una donna con disabilità. Ed è qui che quando una persona fa parte di due “categorie” oggetto di stereotipi, a vincere è in genere lo stereotipo che ha l’impatto più importante.
Quindi, se il lavoro di cura è quasi esclusivamente appannaggio femminile, come si fa ad associare la maternità alle donne disabili, ovvero gli oggetti di cura per eccellenza? Semplice, le due cose non si associano affatto.
L’essere donna, unitamente all’essere “fisicamente difettosa”, provoca un senso di forte disagio in una società che esalta la perfezione del corpo. Le donne con disabilità devono fare i conti con uno stigma che impone loro di essere fragili, bisognose di cure e attenzioni, e già che ci siamo pure asessuate.
Pensare poi che una donna disabile possa addirittura diventare madre e crescere il suo bambino, diventa quasi un’idea assurda e insana. E allora succede che se una donna vuole interrompere una gravidanza ci saranno persone che tenteranno in tutti modi di convincerla a non farlo. Se viceversa è una donna disabile a desiderare un figlio avverrà esattamente l’opposto.
Mi rendo conto che a volte gestire troppi stereotipi insieme possa mandare le persone in tilt come un flipper dopo uno scossone, ma riprendersi è facile: basta lasciare le persone libere di scegliere per sé stesse, non crolla il mondo, ve lo assicuro.
(vanityfair.it)