“Beautiful minds, wasted” è il titolo di cover dell’ultimo numero dell’Economist, dedicato all’autismo nelle sue varie sfaccettature. Se l’alfiere del liberismo e della competizione, è arrivato a capire che i nostri ragazzi non sono un peso ma una forza propulsiva fondamentale per l’equilibrio della società e per le prospettive di crescita economica, vuol dire che si stanno sbriciolando anche le ultime resistenze “mentali” sul ruolo positivo che la disabilità può giocare
Papa Francesco lo sostiene da tempo e, se vi ricordate, la sua critica al modello di sviluppo contemporaneo fu accolta dal fuoco di fila della stampa finanziaria internazionale. Lo avevamo commentato anche su questo blog. Fa particolare impressione notare il cambiamento che si è verificato in meno di due anni. “Beautiful minds, wasted” è il titolo che campeggia sulla copertina dell’ultimo numero dell’Economist, dedicato all’autismo nelle sue varie sfaccettature.
Se anche l’Economist, alfiere del liberismo e della competizione, è arrivato a capire che i nostri ragazzi non sono un peso ma una forza propulsiva fondamentale per l’equilibrio della società e per le prospettive di crescita economica, vuol dire che si stanno sbriciolando anche le ultime resistenze “mentali” sul ruolo positivo che la disabilità può giocare. Forse, è un segnale che l’esito della battaglia contro la cultura dello scarto non è ancora persa.
Ma veniamo ai numeri e ai fatti riportato dall’Economist, partendo dalla dimensione del fenomeno. L’autismo è un fenomeno in crescita esponenziale. In base all’ultima ricerca del Center for Disease Control and Prevention (CDC), pubblicata nel 2014, mentre negli anni ’60-’70 i casi diagnosticati erano 1 su 14.000 bambini, oggi siamo arrivati a 1 su 68 (età del bambino presa a riferimento: 8 anni). Anche restringendo il confronto al 2008, il numero di casi è aumentato del 30%.
Non è chiaro cosa sia alla base di questa crescita esponenziale. In parte, è il risultato di una maggiore sensibilità al problema da parte delle famiglie e della scuola. In parte, è dovuto ad una più efficace attività di diagnosi da parte dei clinici. In parte, potrebbe dipendere dalle tecnologie che circondano il bambino, l’eccesso di stimoli, la minore socialità, …. Ovviamente, i fattori sociali e quelli tecnologici interagiscono tra di loro. Ad esempio, nella rurale Alabama il rapporto è di 1:175, mentre diventa pari a 1:45 nel New Jersey.
I maschietti sono 5 volte più soggetti alla ASD (Autism Spectrum Disorder), cioè tutte le varianti dell’autismo) delle femminucce. In genere, i bambini affetti da ASD hanno un quoziente intellettivo superiore alla media, anche se le difficoltà di comunicazione e le tecniche di insegnamento non adeguate possono rendere il processo di apprendimento estremamente complesso e finiscono per tradursi in ritardi cognitivi.
Per questo una diagnosi precoce e un trattamento intensivo possono fare la differenza sia per il bambino sia per la società. Il costo complessivo legato alla cura di una persona autistica nel corso della sua intera vita può essere tagliato di 2/3 se si interviene per tempo. E stiamo parlando solo dei “costi”. Non stiamo parlando dei “ricavi” per la società e le comunità di riferimento, ovverossia del contributo che una persona affetta da autismo può offrire.
Certo, le ore da dedicare al trattamento specialistico fuori dall’orario scolastico canonico e all’insegnamento dedicato a scuola sono tante. E l’attività è individualizzata. Se nelle scuole elementari inglesi c’è un insegnante ogni 17 alunni, nelle scuole con la migliore prassi in tema di trattamento dell’ASD il personale dedicato è pari a circa 16 persone per 24 alunni. E affinchè il trattamento abbia successo, il personale è altamente specializzato.
E stiamo parlando delle scuole primarie. Perché quando si passa alle scuole superiori o all’età adulta, non sono ancora state definite strategie efficaci di intervento. Le probabilità di trovare lavoro sono minime: solo il 12% delle persone affette da forme non gravi di autismo ha un lavoro stabile e la percentuale si riduce al 2% per le forme più gravi. E non è un problema delle persone: il 79% vorrebbe lavorare. Sono le aziende che non sono in grado di attingere a queste risorse. Iniziando dal colloquio di lavoro, dove vengono apprezzate doti comunicative, che magari non hanno nulla a che vedere con le competenze richieste e che non sono certo il punto di forza delle persone
Nell’ultimo numero di Vita si è parlato molto di Welfare aziendale. Ma le aziende potrebbero fare molto di più per il Welfare delle loro comunità di riferimento (qui). Innanzitutto, rispettando la legge sulla assunzione di persone disabili. Ma anche e soprattutto sforzandosi di capire come le varie disabilità devono essere trattate sul luogo di lavoro. Individuando le mansioni corrette e magari adattandone le modalità di svolgimento alle specificità del lavoratore. Ad esempio, nell’esercito israeliano le reclute autistiche non sono mandate sul campo di battaglia ma vengono impiegate nell’interpretazione di immagini satellitari complesse.
Buescher et al (2014) sul Journal of American Medical Association hanno stimato che i costi diretti e indiretti di supportare un individuo affetto da autismo nel corso della sua vita sono circa pari a 1,9 milioni di euro. Se non ci sono problemi di disabilità intellettiva, i costi si riducono a circa 1 milione di euro.
Non vale la pena investire sulla disabilità per trasformare un costo in un investimento? Noi lo sappiamo che, se si vuole rivitalizzare la “domanda”, dobbiamo partire dai bisogni. E noi lo sappiamo che i bisogni non sono qualche maglioncino di cachemire in più o un nuovo paio di scarpe. Ma non è scontato che anche l’Economist inizi a capire che per far ripartire l’economia è necessario un cambio di paradigma.
(vita.it)