Abbiamo seguito la prima uscita dell’uomo che ha perso una gamba durante un bombardamento sui civili e del figlio Mustafa nato dopo che la madre, in gravidanza, aveva inalato il gas Sarin sganciato da Assad
Liberi dalla quarantena, Munzir e il figlio Mustafa escono a esplorare i colli senesi. Vivace e fracassone dal risveglio fino alla nanna, per qualche istante Mustafa tace. Guarda un mondo senza più accampamenti né colpi d’artiglieria. Sdraiati sull’erba a respirare la pace, fa il cenno che il padre aspettava. Perché in due hanno una sola gamba: «Ma possiamo volare».
Alessio Mamo, reporter premiato due volte con il World Press Photo per i suoi reportage sulle crisi umanitarie, li segue lungo i filari di cipressi, e quasi si getta dal terrapieno per puntare l’obiettivo al cielo, verso quel padre che lancia il figlio. Come qualsiasi papà con qualsiasi figlio. Una foto li ha salvati. Un’altra li consegna al futuro con noi.
Munzir ha negli occhi la stanchezza dell’eroe. Un giovane capofamiglia siriano che perde la gamba destra sotto le bombe di Assad, ma in salvo fino ai campi profughi in Turchia riesce a portare la moglie Zeynab e i tre figli, tra cui Mustafa, oggi cinque anni, nato quasi senza arti dopo che la madre aveva inalato il sarin sganciato dal dittatore siriano sulla popolazione civile.
Accolti grazie ai buoni uffici del governo italiano e alla risposta concreta della Chiesa attraverso la Caritas, hanno appena concluso la quarantena nella casa messa a disposizione dall’arcidiocesi in un borgo sui dolci pendii delle Crete Senesi. Un alloggio accanto ad altre famiglie, con Paolo e Maria a mandare avanti il bazar solidale e fare da zii per chi, da una guerra lontana o per la chiusura di un’azienda a due passi da qui, un tetto non ce l’aveva più.
Il cardinale Paolo Lojudice ci accompagna a conoscere i profughi salvati quasi per caso. «Spero che questa esperienza possa servire a riportare attenzione sulla guerra in Siria – dice l’arcivescovo di Siena – e sulla sofferenza dei bambini che sono le prime vittime della violenza. Mustafa è per noi un apripista. Perché anche dal male si può trarre il bene, e dalla disperazione la speranza».
Un anno fa il fotografo turco Mehmet Aslan, vincitore del “Siena International Photo Awards”, aveva aperto il diaframma della sua reflex nel momento esatto in cui Munzir, appoggiato alla gruccia, sollevava Mustafà per regalargli un momento di gioco spensierato.
«Neanche ci eravamo accorti che ci stava fotografando», ricordano oggi. Un’immagine iconica, carica di un dolore universale per i frutti avvelenati della guerra, ma insieme impregnata del coraggio di chi per amore non si lascia fiaccare.
Diversi mesi dopo, mentre si trovava ancora nella tendopoli turca in prossimità del confine siriano, Munzir comincia a ricevere telefonate e messaggi di congratulazioni, «ma non capivo il perché», ricorda adesso. Era accaduto che Aslan con quello scatto aveva vinto il premio fotografico internazionale della città toscana. Ed è così che è cominciato il lungo viaggio verso l’Italia.
Cominciato con i negoziati tra Roma e Ankara spinti dall’instancabile lavoro di Luca Venturi, ideatore della manifestazione fotografica senese che ha trovato anche degli insoliti alleati: i contradaioli di Siena si sono mobilitati per sostenere la trasferta e la permanenza in Italia della famiglia. Un inedito Palio della solidarietà che nessuno aveva messo in preventivo.
Munzir aveva perso la gamba destra durante un attacco del 2014, quando venne colpito dall’esplosione di una barrel bomb lanciata da un velivolo dell’esercito siriano nei dintorni di Idlib. Una delle roccaforti del Daesh, che ancora qualche giorno fa ha visto un’operazione militare americana per eliminare i nuovi vertici dello “stato islamico”, è stata tra le prime a veder deflagrare le “bombe barile”, caricate con ferraglia per dilaniare qualunque cosa venisse attraversata dall’onda d’urto.
Tre anni dopo sarebbe toccato alla moglie Zaynab correre a perdifiato durante un altro bombardamento. Scappava dal miasma soffocante. Sembrava nient’altro che il solito fumo sollevato dalle esplosioni. Era Sarin, un gas nervino utilizzato in diversi attacchi con armi chimiche contro la popolazione civile. Era l’alba del 4 aprile 2017. «Una data che non potremo mai dimenticare», dice Zaynab mentre tiene d’occhio le due bimbe più piccole, che rivendicano mille attenzioni.
Un raid nella provincia di Idlib, in una zona controllata dai ribelli anti Assad, aveva lasciato sul terreno decine di morti e sparso nell’aria il veleno. «Con me – racconta – c’erano altre quattro donne incinte e tutti i bambini, tre maschi e una femmina, sono venuti al mondo come Mustafa». Un crimine di guerra accertato dagli investigatori Onu.
Vivere nella tana dell’Isis ha fatto considerare milioni di civili come complici nella follia del Daesh. «E tutti noi – commenta Zeynab – ci siamo trovati nel mezzo senza avere alcuna colpa». Per dirla con le loro parole: «Assad ci uccideva con le bombe dall’alto e l’Isis con gli attacchi da terra».
Mentre proferisce con mitezza la rabbia per quello che è stato, con un gesto spontaneo e inequivocabile Zaynab mette una distanza tra sé e i fanatici. Indica il copricapo nel gesto di toglierselo: «L’Islam non è tenere il velo sulla testa, è misericordia e pietà, quella che noi stiamo trovando nella Chiesa e tra le persone qui in Italia, che cureranno Munzir e Mustafà, mentre gli stati arabi islamici non hanno fatto nulla per noi e per la nostra gente».
La Siria da qui è lontana. Le vite perdute, i fratelli uccisi negli edifici crollati sotto i colpi delle granate, i vicini scappati e mai più rivisti, gli amici cristiani scappati in Libano, un dolore che ancora non riesce a fare posto ai pensieri sgombri dagli incubi.
A Munzir non importa della sua gamba, ma gli specialisti del centro protesi di Budrio (Bologna) aspettano entrambi. Mustafa, forse, dovrà prima affrontare un intervento chirurgico allo stomaco. Perché il nervino l’ha respirato anche lui prima di nascere, e ha lasciato tracce. Adesso però vuole andare a scuola, chiede che gli vengano letti dei libri in italiano da ascoltare con le sorelline.
Il passato non lo potranno dimenticare. Ma la gente del borgo gli racconterà favole buone, di eroi e anche di santi. Come Caterina da Siena, che settecento anni fa disse parole che spiegano cos’è l’augurio di un padre che lancia in volo sopra un prato il più fragile dei figli: «Nella amaritudine gusterai la dolcezza, e nella guerra la pace».
(avvenire.it)