Questa è ‘nata storia, sì. Tutta un’altra storia. Mi risveglio in terapia intensiva, con addosso solo il mio camice e richiedo di assaggiare il caffè, scherzando sulla sua provenienza. Con lo spazzolino da denti, sterilizzato di tutto punto, mi strofinano i denti: ”Non può bere, Signora Ianuario. Lidia, si chiama Lidia, vero?” chiede una voce a me non nota, eppure apparentemente così familiare. Caldo, sento caldo: per l’operazione, lunga, lunghissima, che ha alterato le mie percezioni, e per quella voce, che mi trasmette appunto tepore. Mi lascio cullare, per una volta. Straordinariamente accetto l’aiuto altrui, io – Lidia Ianuario – poco o per nulla abituata a chiedere, grazie agli insegnamenti di mia madre che, fin da piccola, periodo in cui lei lavorava più di mio padre, mi ha insegnato ad essere autonoma. Ritorno al ricordo di quella voce, ora, dal mio ateneo, dove digito, e sorrido.
Affrontare la disabilità sdrammatizzando, è stato questo il mio punto di forza. Con ironia, sì, e con estrema fiducia, anzi, con abbandono. Completamente paralizzata dal collo in giù, con la possibilità, sebbene attenuata, di poter muovere gli arti superiori, pian piano mi rendo conto che è un’abilità, seppur latente, ancora presente. Sentire, tutta un’altra cosa. La mia amica mi accarezza le gambe, io avverto bruciore. In tutte quelle coccole – chi mi massaggia con una crema fitoterapica, chi con un olio, chi mi tocca e basta, chi ha paura per evitarmi il disagio di scoprire quanto si sia alterato il tatto – la sensazione che provo è apparentemente negativa.
Poi, conosco lui, di un Paese povero, brasiliano, ma anche tanto gioioso, e lo avverto, quel calore tanto agognato, tramite le sue mani, come un cioccolatino che si ingoia lentamente e non si vuole mandar giù, mentre la gianduia si scioglie naturalmente in bocca. Qualcosa non quadra e più che mettermi in crisi mi stupisce piacevolmente. Raramente amo essere ignara di quel che accade, la mia razionalità mi porta a trovare sempre una spiegazione a tutto, eppure non c’è.
Questo è il testamento della scoperta della mia ritrovata sessualità.
Posso sentire, anche se solo una persona.
Lo conosco in un giardinetto, lì al centro di riabilitazione, col suo cappellino, messo di traverso, e la gamba poggiata su una panchina. Lo sguardo rivolto davanti, la sigaretta in mano, spenta. Iniziamo a parlare con una delle mie solite battute goliardiche, e se ci penso ora rido a crepapelle, perché lo scambio per qualcun altro. Lui è solo, il calar del sole accompagna la nostra conoscenza e in un battibaleno è già sera. La cena è in stanza da un pezzo. A noi non importa, ci inondiamo della nostra reciproca voglia di andare oltre la nostra sofferenza.
Tutto tace intorno. Intorno, sì, e fuori. Dentro di me, il caos: lui lo intuisce, forse, e mi guarda accondiscendente, come a dire :”Sii serena”, piuttosto che ”Non preoccuparti”. Allora comprendo. Mi guardo intorno, osservo le case in lontananza, il cielo rosso che diventa violaceo e lo fisso negli occhi.
Così ho affrontato la mia sessualità: dritta negli occhi, come fosse una persona in carne ed ossa, solo che è, ed era, una parte di me. Da sfiorare, come i miei polpastrelli su questa tastiera, o come i suoi, dopo, in camera, mentre mette a dura prova tutte le mie certezze. Il tatto non mi ha abbandonato.
“Vieni con me, la strada giusta la troviamo […],Portami in alto come gli aeroplani /Saltiamo insieme, vieni con me /Anche se ci hanno spezzato le ali [.. ]”.
Le mie ali sono queste parole: vieni con me, sorvoliamole insieme, su questo blog.
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